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“Oggi siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte”, scrive il critico statunitense Brian O’Doherty nelle prime pagine della raccolta di saggi Inside The White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo (2012). Un’affermazione che potrebbe aver detto o pensato anche Gino De Dominicis quando, con forte carica ironica, espose nel 1970 nelle stanze de L’Attico di Fabio Sargentini la sua Mozzarella in carrozza, un’opera volutamente didascalica che enfatizza come talvolta sia lo spazio espositivo a determinare “quando è arte” (Goodman 2019), il significante a definire il significato, il contenitore a determinare il contenuto, al punto tale che un latticino in una carrozza, all’interno della galleria, è e non può non essere che un’opera d’arte, non tanto per il “cos’è” ma quanto per il “dove” è collocata. Seppur in modo diverso e con un tono differente, entrambi, De Dominicis e O’Doherty, avanzano una riflessione sullo spazio dell’arte. Affermando che oggi siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte, O’Doherty introduce l’argomento dei suoi saggi, ovvero la teorizzazione del white cube, quel cubo bianco che siamo abituati a considerare come lo spazio tipico dell’arte contemporanea, soprattutto in contesti come le gallerie. Nella raccolta di saggi il critico ripercorre dal punto di vista storico l’approdo al white cube, spazio di un bianco asettico paragonabile al chiarore degli ospedali ma anche all’immacolato dei luoghi sacri. Nell’excursus storico O’Doherty individua gli elementi che hanno segnato il passaggio verso il white cube, tra questi: l’eliminazione della cornice.
Partendo dall’osservazione di un’opera del 1833 realizzata dal pittore statunitense Samuel Morse e intitolata La Galleria del Louvre, O’Doherty individua una concezione dello spazio diametralmente opposta a quella del cubo bianco. Il dipinto ci mostra uno spazio costellato di opere a parete, che per un occhio contemporaneo potrebbe risultare invadente nel momento in cui lo sguardo, iper-stimolato, viene sottratto a potenziali vie di fuga. Una sensazione che potremmo provare oggi recandoci a Roma nelle maestose sale di Galleria Doria Pamphilj, dove l’allestimento delle opere di Teniers, Bruegel il Vecchio, Bassano, crea un impatto visivo non distante dall’opera di Morse. Con uno sforzo di immaginazione proviamo a pensare cosa accadrebbe se tutte quelle opere così vicine tra loro avessero una componente sonora: se i personaggi potessero parlare, gli uccelli cinguettare, le capre belare, gli strumenti suonare. La distanza tra l’allestimento di Morse e il cubo bianco si palesa in un aspetto ulteriore: una potenziale componente sonora che aggiunge alla descrizione del white cube come spazio sacro, immacolato, la dimensione del silenzio; così, mentre il primo somiglia più ad un’orchestra sinfonica, il secondo tende a John Cage.
L’allestimento delle due Gallerie prese in considerazione ci guida in ulteriori riflessioni riguardanti uno strumento che appare quasi imprescindibile in tali contesti: la cornice. La cornice ha un ruolo specifico, quello di delimitare perfettamente il dipinto, presentandosi come oggetto di demarcazione del confine tra un’opera e un’altra, come se tale dispositivo proteggesse l’una dalla sua incombente vicina. In un saggio intitolato Della Rappresentazione (2014), il filosofo Louis Marin riporta un esempio efficace sua rilevanza della cornice attraverso le parole del pittore Nicolas Poussin, che nel 1639 inviò una lettera al committente dell’opera La Manna:
Quando avrete ricevuto il vostro quadro, vi supplico di ornarlo con una cornice perché ne ha bisogno affinché, considerandolo in tutte le sue parti, i raggi dell’occhio siano trattenuti e non vengano dispersi al di fuori ricevendo gli aspetti degli altri oggetti vicini, che mescolatosi con le cose dipinte confonderebbero la vista.
In queste poche righe Poussin tematizza una questione rilevante che coinvolge un ipotetico spettatore: la ricezione dell’immagine. La cornice non è semplice ornamento, non è mero elemento decorativo, bensì un dispositivo necessario affinché il fruitore si rapporti al quadro secondo una certa maniera di vedere, evitando che l’occhio si distragga. È un dispositivo che indica come un’opera dovrebbe essere “letta”, è uno strumento – scriverebbe Goodman – per l’”implementazione” dell’opera stessa, soprattutto nel caso di opere pittoriche che fanno leva su altri due dispositivi della rappresentazione, lo sfondo e il piano.
Tornando alle pagine di O’Doherty, il critico evidenzia come gli impressionisti furono i primi ad avere generato una rottura nei confronti dei dispositivi canonici della rappresentazione pittorica. Nonostante ciò, se da un lato gli impressionisti, e in particolare Claude Monet, resero piatto il piano pittorico sviluppando uno spazio, uno sfondo, privo di profondità in favore di una estetica delle superficie, dall’altro rimasero ancorati alla cornice accademica e all’allestimento tipico del Salon. Perché gli impressionisti non rinunciarono alle massicce cornici dell’epoca? Una possibile risposta è arrivata quasi un secolo dopo la prima mostra impressionista del 1874, quando nel 1960 il critico William Seitz ha curato una grande retrospettiva su Monet al Museum of Modern Art di New York. In quell’occasione Seitz ha deciso di esporre le opere senza cornici lasciando le tele nude sulla parete, un gesto in qualche misura azzardato ma coerente con la domanda che aleggiava negli ambienti artistici di quegli anni: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per respirare? Tuttavia, senza cornice i Monet più che respirare sembrarono soffocare; nel trasferire il quadro da cavalletto sulla parete qualcosa veniva a perdersi, come se quella separazione dalla parete, garantita dalla cornice, fosse vitale per la profondità del dipinto, altrimenti troppo relegato alla superficie e facilmente scambiabile per una pittura murale. Ed è sempre negli anni Sessanta che viene a delinearsi il nuovo ruolo di quel luogo che aveva accolto le tele di Monet, vale a dire la parete; non più supporto passivo ma luogo da scrutare e sconfinare. Opere come quelle di Frank Stella ruppero la canonica forma rettangolare del quadro da cavalletto confermando l’autonomia della parete e contribuendo a una ridefinizione dello spazio espositivo. In questo scenario, il confine della cornice venne meno in favore di un vero e proprio protagonismo della parete, esplorata in lungo e in largo, raggiungendo aree liminali, inducendo lo spettatore a sperimentare una rinnovata modalità di osservare.
Immagine: Giulio Paolini, Quando è il presente?, veduta di allestimento, Museo Novecento Firenze.
Bibliografia:
1) N. Goodman, When is Art?, Roma, Luca Sossella Editore, 2019.
2) L. Marin, Della Rappresentazione, Udinese, Mimesis, 2014.
3) B. O’Doherty, Inside the White Cube. L’ideologia dello spazio espositivo, Monza, Johan & Levi Editore, 2012.
Valeria De Siero (Frosinone, 1995) è curatrice d’arte contemporanea, ha una formazione in ambito letterario, filosofico e artistico maturata fra l’Università degli Studi di Siena, L’Università di Parigi 1 – Panthéon Sorbonne e l’Università LUISS di Roma. Ricopre il ruolo di insegnante di lettere per le scuole superiori di secondo grado. Attualmente è stagista presso Palazzo Barberini nell’ambito del progetto espositivo “Pier Paolo Pasolini. Tutto è Santo”, a cura di Michele Di Monte.