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Come accade soltanto con i grandi autori, la conclusione della lettura di un’opera di Pasolini non è che il preludio di un’infinita ricerca di senso e di una serie sterminata di interrogativi ontologici a cui il lettore attento non può fare a meno di sottrarsi. Per tale ragione, su Pasolini si è scritto molto e molto ancora si deve scrivere, senza però alcuna reale pretesa di cogliere l’essenza più profonda delle parole dello scrittore bolognese, giacché questa risiede al di là di ogni congettura critica e, forse, anche della Storia. D’altronde, non è una novità che Pasolini sia considerato una delle figure più controverse della scena letteraria nazionale, capace di spaccare l’Italia a metà tanto in vita – e qui balzano subito alla mente le rasoiate degli Scritti corsari sulle tematiche sociopolitiche più delicate degli anni Settanta – quanto in morte, come tutt’oggi testimoniano i dibattiti nei salotti letterari sul peso specifico che dovrebbe avere Pasolini all’interno del nostro patrimonio culturale. L’opinione pubblica, insomma, è sempre stata tradizionalmente divisa sull’autore di Ragazzi di vita, fin dal 1975, quando gli antipasoliniani gioivano per la dipartita dello scomodo scrittore bolognese e la Sinistra del tempo ne assurgeva le opere civili a bandiera ideologica. Da un punto di vista prettamente letterario, uno dei maggiori terreni su cui la critica dibatte da lungo tempo è la lirica pasoliniana, da taluni apprezzata per la sua unicità all’interno della scena poetica novecentesca e da altri stroncata come esempio di impoetica propaganda politica verso certe tematiche civili contemporanee. Oggettivamente parlando, però, è impossibile non riconoscere nella lirica pasoliniana entrambe le istanze. Se da un lato, infatti, Pasolini poeta adotta un temperamento radicalmente anticlassico che spesso lo porta a travalicare l’orizzonte testuale in maniera assolutamente peculiare, dall’altro considera la letteratura in versi il braccio secolare della sua aspra contestazione del presente, avvalendosi della possibilità per il dettato poetico di rendere indistinguibile e coincidente lo spazio del pubblico e quello del privato. Va segnalato un punto di rottura, però, tra due diverse stagioni della lirica pasoliniana, punto di rottura che è al contempo atto esistenziale, ideologico e formale: il trasferimento a Roma. Dal 1949, infatti, Pasolini abbandona la realtà mitica e rurale di Casarsa, simbolo assolutamente positivo di una società lontana dal capitalismo e intrisa di una religiosità primitiva, per approdare nella capitale che, per l’autore, rappresenterà sempre il centro delle contraddizioni dell’Italia a lui contemporanea. Esperienza fondamentale quanto drammatica, vivere nella capitale influenzerà profondamente la lirica di Pasolini, che si farà d’ora in avanti sempre più portatrice delle istanze del sottoproletariato, la classe sociale che incarnava al meglio, secondo la prospettiva autoriale, i valori di quella collettività mitica conosciuta a Casarsa.
Come accade soltanto con i grandi autori, la conclusione della lettura di un’opera di Pasolini non è che il preludio di un’infinita ricerca di senso e di una serie sterminata di interrogativi ontologici a cui il lettore attento non può fare a meno di sottrarsi
Se Roma rappresenta il centro poetico della seconda stagione della lirica pasoliniana, Casarsa – e non la natia Bologna – è indubbiamente quello della prima. Il comune friulano, infatti, dove Pasolini visse durante gli anni Quaranta e dove attualmente è sepolto, non rappresentò per lo scrittore soltanto un’occasione di ricongiungimento alla terra natale materna e uno stimolo a riscoprire e studiare il patrimonio culturale locale, ma fu un vero e proprio campo d’addestramento alla sottile arte poetica, poiché è negli anni a Casarsa che Pasolini si cimenta a scrivere e a tradurre lirica in dialetto friulano. Il friulano – un dialetto culturalmente vergine, dal momento che la sua letteratura non sembrava aver fortuna oltre il Tagliamento –, infatti, era per Pasolini il linguaggio dell’autenticità più viscerale, il perfetto regresso lungo i gradi dell’essere, ma al contempo, nel contesto della tradizione lirica italiana dialettale, un eccezionale strumento per esperimenti iperletterari e manieristici. Ecco che si andava così formando quel movimento di diastole e sistole, di tradizione e innovazione, di profondo coinvolgimento emotivo e freddo distacco sperimentale, che, seppur in forme di volta in volta diverse, Pasolini non mancherà di riproporre in entrambe le stagioni della sua opera in versi. A Casarsa, però, Pasolini non scopre soltanto un mondo leggendario, capace di conservare la propria purezza in quanto ancora all’oscuro della violenza del progresso storico, ma – rivelando un profondo amore e rispetto verso l’opera pascoliana – si dedica anche a una narcisistica contemplazione della propria giovinezza, posta all’interno di un costante e decadente dialogo con le figure di Madre e di Morte. Una giovinezza, va detto, che per Pasolini diverrà presto un’ossessione, prima perché soffocata nelle sue forme più sensuali da un mortifero cattolicesimo, poi perché divenuta impossibile da recuperare dopo l’agnizione della mutazione antropologica.
Il friulano – un dialetto culturalmente vergine, dal momento che la sua letteratura non sembrava aver fortuna oltre il Tagliamento – era per Pasolini il linguaggio dell’autenticità più viscerale, il perfetto regresso lungo i gradi dell’essere, ma al contempo, nel contesto della tradizione lirica italiana dialettale, un eccezionale strumento per esperimenti iperletterari e manieristici
Le poesie scritte dopo il 1949, cioè i testi della seconda stagione della lirica pasoliniana, riflettono vistosamente il drammatico impatto di uno scrittore di provincia con Roma e le sue infinite contraddizioni. A Roma Pasolini non manca di sentirsi un emarginato sociale e, per tanto, si riconosce psicologicamente nella classe emarginata par excellence della società industriale, quella sottoproletaria, che di lì a poco investirà del titolo di erede della pura e primitiva collettività casarsese. La poesia diventa così lo strumento con cui fondere a sé e assimilare pienamente ogni esperienza e anelito della vita di borgata, popolata di quelle figure assolutamente terrene, passionali e incolte che tanto affascinavano e incendiavano la mente di Pasolini. Si riconosce, da qui in avanti, una perpetua dialettica tra passione e ideologia nei versi pasoliniani, ma anche e soprattutto una sempre più impellente e necessaria tendenza antinovecentista, esibita in particolar modo nello stile, per esempio attraverso il recupero di schemi discorsivi peculiari della poesia impegnata ottocentesca, principalmente di stampo pascoliano. Il carattere più interessante della lirica pasoliniana dalle Ceneri di Gramsci in avanti, però, risiede in un originale, magmatico e vitalistico plurilinguismo, che, non temendo di oscillare tra le zone più oscure e quelle più limpide della lingua, rivela, oltre che il movimento di sistole e diastole già sottolineato, un’architettura poetica essenzialmente fondata sul confronto psicanalitico tra razionale e irrazionale. All’apertura linguistica verso l’indifferenziato vitale e all’antipoetico, infatti, si affiancano tracce di dizione squisitamente poetica e sublime, aprendo così la strada a due posture, una libera e prosastica, l’altra rigida e lirica. In questo modo, il razionale trova uno spazio d’esistenza all’interno della postura più lirica e garantisce così al testo quell’autorità sapienziale in grado di colmare i vuoti e le contraddizioni logiche lasciate dalla postura prosastica, sede dell’irrazionale della lingua. Non è un caso, infatti, se la seconda stagione della lirica pasoliniana evidenzia una particolare propensione nei riguardi del potere della parola e della sua capacità di farsi materia per intervenire sulle questioni sociali che attanagliano il mondo reale. È attraverso questa serie di passaggi ontologici e linguistici che Pasolini assottiglia la distanza tra pubblico e privato nella sua produzione in versi, facendosi così alto promotore delle battaglie civili del suo tempo. La turbinosa vita nella capitale e questo inedito e raffinato dettato politicamente impegnato saranno gli stimoli primordiali alla base della riscrittura e rivisitazione che Pasolini, ormai ultracinquantenne, farà della raccolta di poesie friulane La meglio gioventù, adesso ristampata col titolo di La nuova gioventù. Purtroppo, però, il recupero di quella condizione esistenziale ed estetica, una volta che l’io lirico si è intimamente invischiato nelle logiche della mutazione antropologica, diverrà un processo impossibile, molto più prossimo a una masochistica pulsione a ferire la propria immagine giovanile che a un genuino ritorno alle forme ontologicamente pure e innocenti degli anni friuliani. L’effetto della giustapposizione di poesie in dialetto e prose polemiche, infatti, appare a una lente critica come una drammatica dichiarazione della totale alterità dello ieri dall’oggi, non, come invece intendeva trasmettere Pasolini, un tentativo di dialettizzazione dell’oggi attraverso gli strumenti dello ieri. Va notato, quantomeno, il rilevante taglio ideologico e psicologico di questi testi, considerabili in svariate occasioni documenti di grande importanza nella ricostruzione della vita e del pensiero dell’ultimo Pasolini. Ultimato questo breve excursus nel corpus poetico pasoliniano, è quindi abbastanza evidente come l’autore di Una vita violenta non possa essere facilmente inquadrato all’interno di rigide categorie estetiche, lui che più di altri aveva in odio qualsiasi tipo di schematismo critico perché promosso da quella borghesia troppo lontana dai valori della gente di borgata, dalla vita vera e dalla purezza incontaminata dalla Storia. Leggere Pasolini oggi, a cent’anni dalla sua nascita, significa interfacciarsi con una realtà che ci scandalizza e ci rende inquieti, che ci tormenta e ci chiede vendetta, che ci fa patire e ci soffoca, ma tutto ciò è inevitabile, in quanto leggere oggi Pasolini significa guardare in faccia la nostra inerzia di fronte alla tragedia degli ultimi, dei reietti, dei diseredati.
Immagine: Pier Paolo Pasolini e Enrique Irazoqui in un momento di pausa durante le riprese de Il Vangelo secondo Matteo. Sullo sfondo a destra seduto, Maurizio Lucidi, aiuto regista (fonte: File:Pasolini – foto di Domenico Notarangelo.jpg – Wikimedia Commons)
Bibliografia:
1) P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano, 2003.
2) P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano, 2014.
3) A. Pietropaoli, Le strutture dell’anti-poesia. Saggi su Sanguineti, Pasolini, Montale, Arbasino, Villa, Guida, Napoli, 2013.
Yuri Sassetti è nato il 15 gennaio 1995 a Siena. Una volta conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università degli Studi di Siena con una tesi sulle figurazioni del vampiro nella letteratura gotica inglese, decide di proseguire il percorso di formazione nella città dove è nato iscrivendosi a Lettere moderne ma specializzandosi nelle letterature straniere. Ama leggere e scrivere poesie, suona la chitarra in una band e trova interessante il cinema impegnato. Attualmente sta pensando alla raccolta e pubblicazione di una serie di saggi di critica letteraria.