Carte da vedere

Le nostre mani sulla città


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A F. e a sua madre

Tra lo splendore artistico, tra la fervida immanenza dei monumenti, tra i pozzi di virtù e bellezza che arricchiscono l’Italia, una città merita un discorso singolare: Napoli, un guazzabuglio di ortensie colorate in fiore, di agavi verdazzurre che pudiche nascondono il fusto, proprio come la città nasconde allo straniero che vi si affacci tanti nòccioli di verità, numerose questioni irrisolte, mille splendenti misteri e altrettante oscure amenità.

Napoli a luglio è una canicola insistita sulle nuche e le braccia scoperte di chi percorre i saliscendi infiniti del centro storico, un agglomerato che assale lo spettatore (a Napoli si è spettatori, con difficoltà si partecipa davvero) con intenzioni strillate, armoniosa frenesia, cibi e odori. Passeggiando tra le viuzze leggo: vico della Calce, vico della Neve, vico del Filatoio, mi scopro cullato da timbri di voce che non possono esistere che qui, ed è come se la città mi si cucisse addosso in un vestito di taglia a volte stretta, a volte larga, mai tessuto su perfetta calzante misura. I napoletani orgogliosi mi accompagnano volentieri alla scoperta dei loro gioielli, e tuttavia penso sia un modo per ricordarmi che gli autoctoni sono e possono essere soltanto loro: questa metropoli la si ammira sempre attraverso un vetro che separa, alla stregua di un diorama, col tempo che si ferma e tante azioni che restano incompiute e distanti dall’atto.

Napoli confonde perché anch’essa è una città confusa, in cui comunicazioni di segni si configurano come miriadi di dialetti diversi che convivono e si barcamenano alla ricerca di un significato comune, con le istituzioni che parlano una lingua, gli abitanti un’altra, i muri cittadini – i veri logorroici – un’altra ancora. Il mio soggiorno nell’urbe partenopea l’ho vissuto come un’opera d’interpretazione letteraria, una traduzione senza testo a fronte, come un Bartezzaghi che manchi delle definizioni, o in cui esse siano sparigliate dalle soluzioni.

“Questa città è eterogenea, per necessità…” mi viene sussurrato all’orecchio, sull’ampio terrazzo interno della palazzina più silenziosa e permalosa di via del Duomo, davanti a un bicchiere di birra che si riscalda in fretta.

E queste persone, penso invece io, sono un coro d’anime, un’orchestra che vorrebbe accordarsi col medesimo diapason, ma ognuno suona la sua musica su scale diverse. Eppure, è bello che a venirne fuori sia una melodia.

Foto di Alice La Torre


Alessandro Lucia è nato il 21 novembre 1995 a Pescara. Diplomato al Liceo Classico di Pescara, nel 2017 consegue la laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna, dove prosegue gli studi, ottenendo la specializzazione in Italianistica nel novembre del 2020. Ama – non potrebbe essere altrimenti – la letteratura ed anche la musica, che studia fin dall’infanzia e che lo trascina dalla tastiera di un pianoforte classico alle drum machines, ma non disdegna affatto interessi più “profani”, come il calcio e i videogames. Nel suo nebbioso futuro da umanista intravede ulteriori studi, polverosi archivi e dotte biblioteche.