Carte da vedere

Un posto come un altro


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Esistono luoghi monumentali pieni di storia e bellezze inestimabili. Allo stesso tempo esistono luoghi ideali, che piegati su loro stessi sopravvivono soltanto grazie ai ricordi; e così il cuore palpita nel rivedere una piccola piazzetta di cemento senza bellezza alcuna. Grigia e depressa con le sue panchine logore e qualche alberello sbilenco che sembra chiedere perdono al mondo per la sua infeconda esistenza, sfiduciato, come tutto il panorama circostante. Per questi luoghi – senza traffico, coi tavolini dei bar scoloriti dal tempo, le insegne degli anni Ottanta e le facciate delle case color nostalgia sciupate dal sole – sento una strana forma di rispetto. Ecco perché il borgo che mi ha dato la vita, un paese sconosciuto, spoglio e brullo, mi riempie di disagio e reverenza. Quando ritorno, puntualmente incrocio gli sguardi – sempre gli stessi, sempre nello stesso luogo – dei volti mutati dall’età, con solchi profondi e lunghi incisi dal tempo veloce e paziente; facce pesanti incupite dal lavoro, dalle delusioni e dall’alcol. Riconosco ogni volta con sorpresa i sorrisi bonari, le frasi rituali, il suono musicale ma rozzo delle voci sporche, stanche eppure piene di vita, che si accavallano l’una sull’altra. San Rufo è il luogo dove fuggo quando la metropoli con le sue mille vibrazioni mi sovraccarica, quando il baricentro della mia esistenza viene scosso dallo stress, dall’ansia e dal lavoro. Come un magnete la monotona decadenza provinciale mi attrae a sé e ogni volta riattiva l’ago della bussola.

Ricordo folli corse in bicicletta; gli alimentari, quando ancora avevano il nome dei gestori; i Super Santos, comprati e bucati quotidianamente, e poi un litigio: le prime avvisaglie di un’amicizia destinata a finire. Era il 2002, faceva caldo; la strada che portava a casa dei nonni era male illuminata e per la prima volta, sotto un lampione con luce intermittente, mi poggiai sul muretto che costeggiava il marciapiede. Osservavo tutto; come di fronte a un quadro di Caravaggio cercavo di capire le figure, le ombre e le luci di quel malinconico paesaggio che mi si proponeva, tentavo di scovarne il senso, di immergermici e restarne folgorato. Vedevo qualcosa pur non essendoci nulla da vedere. Guardavo, intontito e assorto. Sotto i piedi qualche erbaccia, un po’ di muschio, degli insetti; alle mie spalle alberi di castagno, abeti imperiosi e qualche ulivo. Il trono su cui indugiavo era fatto di cemento e stucco a buon mercato, mentre il muro davanti a me era così stretto che sembrava volermi schiacciare col peso della sua statuaria rovina. Quel giorno l’informe prese forma per la prima volta. Osservavo e contemporaneamente andavo oltre, superavo col pensiero quello che la mia vista sembrava suggerire, approssimavo realtà diverse. Il senso di paura provocato dal litigio andava affievolendosi. Quando scrutai con occhi infantili le cose comuni che mi circondavano tutto sembrò avere vita, il panorama diventava anomalo e straordinario.

Mi dissi quel giorno – in un luogo dozzinale – che dello sguardo mai avrei dovuto perdere l’ingenuità. Da allora quando sono lì mi ricarico, e per qualche tempo ogni posto è un gioco, una disillusione. Ogni uomo è un universo, ogni universo è una crepa. Persevero nel creare sfuggendo la paura – l’unica vera – del vuoto, dell’invisibile. Non è sempre facile. A volte il non capire mi distrae e destabilizza, ma con l’immaginazione aggiungo strutture al nulla, nei nascondigli della mente genero mondi che affiorano vividi anche se inspiegabili. Il mio personale big bang, l’epifania di mille vite realizzabili attraverso la rappresentazione di un’infinità di universi possibili, concepibili. In senso lato per me l’iniziazione alla letteratura ha avuto luogo lì: su quel muretto di stucco a buon mercato, sotto l’influsso del dolore e della delusione, con la consapevolezza di poterne uscire, sempre. Ho compreso attraversando i palazzi lucenti e le stanze segrete della mente che l’uomo è capace di immaginare e plasmare a piacimento mondi, storie e utopie per creare attraverso l’immaginazione una via di fuga, una realtà dissimulata, una medicina: la cura finale.


Giuseppe Maria Marmo, classe 1993, è cresciuto in un piccolo paese nella provincia di Salerno. A 19 anni molla tutto per trasferirsi a Bologna, dove trova il tempo di laurearsi in Lettere. Follemente innamorato della città rossa, dopo tre anni o poco più la abbandona con frasi del tipo: “non sei tu, sono io, sei troppo per me”, e altri infiniti luoghi comuni. Nel 2017 si trasferisce a Roma, dove si laurea in Editoria e scrittura e dove ha seguito un Master in Grafica Pubblicitaria, Editoriale e Web Design. Nella vita vive, ma ci sta stretto, nel tempo libero scrive, legge, guarda film, ascolta musica, scatta foto e cerca di conquistare il mondo.