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La brezza marina del mattino che mi sferza le guance rosee, il cruento e sonoro infrangersi delle onde sugli scogli del porto, un cielo denso di nuvole che sembra poter crollare addosso all’umanità intera: sono questi i primi dettagli che riaffiorano alla mia mente se ripenso a quel giorno di metà settembre di venti anni fa. La vacanza in Sicilia, almeno fin ad allora, era trascorsa serenamente. Io e la mia famiglia eravamo partiti dall’aeroporto di Fiumicino due settimane prima, sul finire di agosto, giacché mio padre era stato particolarmente assediato dai consueti impegni di lavoro, con conseguente sommo dispiacere di mia madre che puntualmente lamentava la sua assenza. Avevamo quindi trascorso la prima settimana girovagando per le località della costa orientale, per poi successivamente trasferirci a Palermo nell’ultimo periodo di soggiorno. Nonostante al tempo avessi avuto solamente sei anni, ricordo distintamente come fossi rimasto ammaliato dalla vivacità di quei luoghi: il denso traffico delle strade di Catania, l’incontenibile esplosione di colori di Marzamemi, la perturbante austerità del duomo di Ortigia, la sofferente sacralità della scalinata di Caltagirone, l’atarassica quiete della fortezza di Aci Castello, l’angelico candore delle saline di Trapani e il crogiolo di diversità umane che mi si parò davanti a Palermo permarranno indelebili nella mia memoria per sempre. Erano state due settimane insolitamente felici, invero.



Abituati com’eravamo io e mio fratello ai litigi coniugali dei nostri genitori – discussioni che non avrebbero potuto sfociare in altro che in una separazione, come accadrà qualche anno dopo –, la serenità e la genuinità di quei giorni ci trasmettevano un misto di straordinarietà, incertezza e illogicità. Soldati in trincea completamente tagliati fuori dalla realtà circostante: ecco cosa eravamo. Valutata tale condizione con gli occhi di oggi, però, era forse soltanto reciproca indifferenza a corroborare quel clima disteso. Quella mattina di metà settembre sarebbe stata l’ultima che avrei trascorso in Sicilia, dal momento che a breve avrei dovuto nuovamente sedere, con un certo rammarico, al mio freddo banco di scuola. Io e la mia famiglia eravamo usciti presto, poiché temevamo che quella brezza mattutina – a dire il vero, sempre più intensa – e quell’inquietante ammasso di nubi si sarebbero presto convertiti nel tipico effimero e violento acquazzone estivo, rovinandoci ingiustamente l’ultimo giorno di ferie. Alla vista di quel panorama ricordo di aver provato il più umano dei sentimenti: la paura. A ripensarci adesso, forse ero stato condizionato dalla recente notizia di una ragazza che, nell’intenzione di riprendere il cellulare dimenticato in spiaggia durante un temporale, era stata malauguratamente fulminata da una scarica elettrica, dato che il dispositivo si era accidentalmente improvvisato parafulmine, oppure – ipotesi ben più inquietante – nel mio animo avevo avvertito che quella sarebbe stata una giornata funesta. Sia come sia, la vita intorno a me procedeva esattamente come in un qualsiasi altro giorno di lavoro: gli operai comunali spazzavano diligentemente il marciapiede, i bar cominciavano ad affollarsi di impiegati alla ricerca di una gustosa colazione, alcuni cittadini portavano il proprio cane a fare una passeggiata, mentre altri approfittavano della temperatura mite per tenersi in forma con del sano esercizio fisico. A fluttuare in mezzo a questo eterogeneo accumulo di esistenze, c’eravamo noi. Ricordo che il nostro aereo di ritorno sarebbe partito nel tardo pomeriggio, forse intorno alle ore 18:30, quindi mio padre decise in totale autonomia che non avremmo avuto il tempo di gironzolare per la provincia di Palermo; per tal ragione, visitammo le zone della città che ancora ci erano estranee. A questo punto, lo scavo della mia memoria si fa più difficoltoso e, come in ogni archeologia che si rispetti, si può soltanto tentare una ricostruzione degli eventi avvalendosi delle poche tracce rimaste. I colori della città sbiadiscono gradualmente. Il cielo si fa sempre più coperto. Il vento comincia ad alzarsi. Le nuvole pesano sulla testa. Le strade sono strette e asfissianti. Un bubbolio lontano. Le orecchie sono attraversate da un sibilo. Una goccia d’acqua mi bagna la guancia. Il respiro si fa affannoso. Un fulmine. Il ristorante dell’albergo dove alloggiavamo non era affatto rinomato per la qualità della sua cucina, ma devo ammettere che, con quel senso di malessere che mi tormentava fin dalle prime luci del mattino, non sarei riuscito a inghiottire un boccone neanche all’interno del locale più affermato della città. A dire il vero, alla nausea si era aggiunto l’imbarazzo, dal momento che mia madre, nel tentativo di recriminare al marito la decisione di restare a Palermo, aveva sollevato una diatriba a tavola degna dei più scadenti melodrammi settecenteschi, attraendo così gli sguardi torvi e il disprezzo degli astanti. Ricordo che la discussione si inacerbì talmente tanto da protrarsi fino al ritorno in camera; la classica cortina di ferro coniugale che solamente un evento inaspettato, inaudito o immensamente tragico può abbattere. Per occultare il loro fastidioso gracchiare e per distrarre mio fratello – o forse per trovare inconsciamente una risposta al mio malessere, non saprei dire con certezza –, presi il telecomando del televisore e premetti il tasto d’accensione. L’apparecchio si sintonizzò automaticamente su Rai Tre, che, in quel momento, stava trasmettendo “La Melevisione”, uno dei programmi del tempo a me più cari. Improvvisamente, però, la battuta di Tonio Cartonio venne interrotta. L’edizione speciale del TG3 fece calare un silenzio assordante sulla stanza. Fuori pioveva. Macerie e detriti. Fuoco. Corpi in caduta libera. Era l’ultimo giorno di ferie estive.
Yuri Sassetti è nato il 15 gennaio 1995 a Siena. Una volta conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università degli Studi di Siena con una tesi sulle figurazioni del vampiro nella letteratura gotica inglese, decide di proseguire il percorso di formazione nella città dove è nato iscrivendosi a Lettere moderne ma specializzandosi nelle letterature straniere. Ama leggere e scrivere poesie, suona la chitarra in una band e trova interessante il cinema impegnato. Attualmente sta pensando alla raccolta e pubblicazione di una serie di saggi di critica letteraria.