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[Domenica 16 settembre 2018, Mogliano Veneto (TV)]
Ieri sera chiacchieravo con delle amiche e degli amici della mia città al Bar Verdi. Assieme a noi, c’era un uomo sulla quarantina. Era il fratello di un conoscente del mio amico Gatto, che era anch’egli al tavolo.
Di quest’uomo, mi colpì la parlata.
Da veneto doc, parlava di lavoro. Stava lamentandosi del suo capo, del suo mestiere, dello staff, della gestione del ristorante, eccetera. Faceva il cuoco alla Table Blanche. Pronunciò il nome del locale con la tipica cadenza veneta: “Tablé Blàànche” con la “E” sonora e la “A” ben stirata e aperta, tutto il contrario di come lo direbbe uno chef francese.
Del veneto, non aveva solo la lingua ma anche l’atteggiamento perentorio di chi ha certamente ragione. Le sue parole, di una banalità imbarazzante, venivano percepite come verità assolute e inconfutabili.
Il suo sguardo era posato unicamente sul volto di Gatto ma gli occhi di chi gli stava seduto intorno – i miei compresi – non riuscivano a schiodarsi da quella faccia rotondetta e un po’ sudata, costantemente offuscata dalle sigarette che fumava. Una dietro l’altra.
Eccoci qui, tutti in semicerchio ad assistere alla sua esibizione.
Più che in un losco bar di provincia, il cuoco della Table Blanche sembrava al centro del palco del Goldoni. Le frasi uscivano taglienti e persuasive, un dialetto veneziano impeccabile coloriva le parole. Come arrotolava quelle “R”, come si faceva acuta la sua voce quando voleva sottolineare un passaggio! Il tutto mescolato a una gestualità appena abbozzata, quasi disinteressata ma alquanto evocativa.
In questo innato bilinguismo italo-veneziano, si inseriva qua e là una parola di francese, soprattutto in ambito culinario: l’omelette, il croissant, la tartare, l’entrecôte, il foie gras… Come il più stereotipato dei cliché, azzardava una pronuncia un po’ esotica ma le sue origini di profondo lagunare rendevano vano ogni tentativo.
Eppure, chissà perché, il risultato di quella triplice commistione era l’attraente, attraentissima loquela. Da piegarsi dal ridere.
Così parlò il veneto al Bar Verdi: «Teo digo, al ristorante abbiamo tanti problemi. Ad esempio ea musica: i mette quea musica, dai… come xe che a se ciama?»
Gatto, il mio amico, rispose: «Rock! Punk! Minimal! Country!…»
«Ea musica Country! Ma fioi, ma con la musica country attierai i veci, le fameje ma no i giovani! I ragazzi come voialtri, mica ascoltano ea country music!»
Al che Gatto intervenne: «Beh la musica country ci sta, non è male…»
E il veneto: «Beh ghe starà pure, ma quando che i la gà messa, no te go mai visto alla Table Blàànche!»
A Gatto non restò che abbassare la testa e confessare: «In effetti, non vengo a mangiare lì da almeno quattro anni…»
Pioggia di risate.
Una banalità, una verità assoluta e inconfutabile. Eppure, dopotutto, a ‘sto veneto non si poteva certo dar torto.
Foto di Alice La Torre
Francesco Magon nasce nel 1995 a Treviso. A 20 anni lascia Mogliano Veneto e si trasferisce a Bologna e poi (2017) a Parigi. Nel 2019 fonda Letteraturite, rubrica radiofonica per Aligre FM (93.10) dove lavora come presentatore e tecnico del suono. Lo stesso anno è redattore presso il giornale giuridico “Leaders League” e, nel 2020, partecipa al progetto editoriale «L’Italia del Père-Lachaise» (Skira editore). Quando non perde il suo tempo tra giri in bici, cinema, bar, librerie, parchi e campi da calcio, frequenta i corsi in Teorie della letteratura della Sorbonne, dov’è iscritto. Nessuna allergia da segnalare, tranne un’intolleranza a certi –ismi (tra i peggiori ricordiamo: perbenismo, servilismo, razzismo, populismo, estremismo, estetismo etc.), ai luoghi comuni e alle banalità.