Arte

La Sala del Tesoro di Palazzo Costabili


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Antonio, Alfonso, Benvenuto. No, non si tratta di miei amici d’infanzia – per quanto l’idea di trascorrere le mie giornate bambinesche con compagni di questo calibro mi risulti particolarmente dolce – ma di alcuni dei protagonisti più illustri della storia dell’arte rinascimentale. Le storie di questi tre uomini sono alternativamente accomunate da intrecci geografici, politici, artistici, intellettuali. Ci troviamo nella Ferrara degli Este, divenuta un importante centro d’arte e di potere a partire dal XV secolo, all’avanguardia sul fronte del teatro e della musica, e fulcro di un’insigne scuola d’arte – od “officina”, secondo una felice definizione longhiana – che assumerà un peso notevole all’interno del panorama artistico del Rinascimento. Inscritta in questo fervido ambiente culturale, troviamo l’opera trattata in questo articolo e ospitata in una delle sale del meraviglioso Palazzo Costabili, oggi sede del museo archeologico nazionale. Si tratta della decorazione pittorica della Sala del Tesoro, realizzata nella prima metà del Cinquecento da Benvenuto Tisi detto il Garofalo. Gli affreschi colpiscono non soltanto per la loro qualità artistica e vivacità cromatica, ma anche e soprattutto per il fatto che essi appaiono come un racconto della società ferrarese del tempo, con le sue mode, bizzarrie e contraddizioni.

Foto di Aurora Bollettinari

Ma se è vero che un’accorta comprensione dell’opera non può prescindere dal contesto storico, sociale e culturale in cui essa è stata prodotta, prima di entrare nel merito del nostro affresco è indispensabile fare un passo indietro per capire quale ambiente ne ha determinato il concepimento. Ed è qui che incontriamo il nostro primo protagonista. Ambasciatore e segretario del duca Ercole I, il conte Antonio Costabili discende da un’anziana e nobile famiglia ferrarese. La giovinezza di Antonio si consuma tra lo studio dei classici e l’educazione cavalleresca e militare di stampo aristocratico. In qualità di tribunus militum, al servizio di Ferdinando d’Aragona, prende parte alla guerra contro Venezia distinguendosi in occasione della liberazione della città di Argenta. Sotto il ducato di Ercole, Antonio Costabili diviene ambasciatore a Milano, alla corte di Ludovico Sforza detto il Moro. Dopo la morte del duca, il Costabili viene nominato consigliere dal successore di Ercole, Alfonso I, ed è proprio per incarico di quest’ultimo che l’aristocratico ferrarese intraprende nel 1506 un viaggio a Mantova che si rivelerà essere cruciale per l’organizzazione prospettica dell’opera del Garofalo a Palazzo Costabili. A Mantova, infatti, messere Antonio è inviato per ottenere la restituzione di un illustre prigioniero nonché fratellastro del duca: Giulio d’Este. Questi, escluso dai giochi di potere da Alfonso I – concentrato com’era allora a favorire il pupillo di casa d’Este, Ippolito – aveva durante diversi mesi provato ad ordire una congiura contro il duca Alfonso, con l’aiuto, tra gli altri, di Ferrante. Ma l’abile cardinale Ippolito, oltre alle donne e ai lussi, si curava nondimeno di mantenere già allora una fitta e nascosta rete di informatori inseriti come radici nel terreno sociale di Ferrara. È così dunque che, scoperta la macchinazione ai danni suoi e di suo fratello, Alfonso I condanna Giulio e Ferrante alla pena definitiva. Per sfuggire alla morte, Giulio sceglie quindi di rifugiarsi alla corte di Francesco Gonzaga a Mantova dove Antonio Costabili è inviato al fine di ricondurre a Ferrara il condannato. Ma il consigliere estense non è solo in questo viaggio perché al suo seguito si trova Benvenuto, pittore di Garofalo, attuale Rovigo. Nella città lombarda, il pittore può ammirare gli affreschi della camera degli sposi realizzati dal Mantegna, la cui rappresentazione “da sotto in su”, come sottolinea Fioravanti Baraldi, deve aver sicuramente ispirato Benvenuto al momento dell’esecuzione delle sue pitture nell’aula costabiliana.

Foto di Aurora Bollettinari

La datazione degli affreschi della Sala del Tesoro è ancora oggi largamente dibattuta e oscilla tra il 1506 e il 1513 per quanto riguarda la parte alta del soffitto e tra il 1510 e il 1519 se si considerano le diciotto lunette della parte inferiore, con una convergenza comunque relativa all’anno 1517. Se il recente restauro del 2007 non ha del tutto dissolto l’incertezza sulla data di realizzazione delle pitture dell’aula costabiliana, un discorso analogo può essere condotto riguardo l’origine del nome della sala e la sua funzione all’interno del palazzo rossettiano. L’umanista Celio Calcagnini, nel suo testo latino Opera Aliquot, riferendosi alla stanza decorata dal Garofalo usa i termini cubiculum dormitorium, alludendo così ad un uso privato della sala, avente funzione di camera da letto. Viceversa, in un documento datato 1527 e redatto dal notaio Andrea Minotto, la sala viene definita semplicemente “camera aurata et picta”, senza quindi fare riferimento al dormitorium. Del resto, l’organizzazione degli spazi dei palazzi nobiliari rinascimentali rende difficile pensare ad un impiego della sala come camera da letto la cui ubicazione era generalmente prevista al piano superiore o piano nobile. Infine, se ci si rifà all’appellativo “Sala del Tesoro”, è inevitabile fare riferimento al Thesaurus che, ancora all’epoca del Costabili, designava un insieme di opere a carattere enciclopedico. La possibilità che si trattasse dunque della biblioteca o di una sorta di studiolo del conte Antonio appare la più concreta.

Foto di Aurora Bollettinari

Al riparo dai portici del meraviglioso giardino posteriore del palazzo, l’aula costabiliana si mostra in tutta la sua bellezza. Se si alza lo sguardo, lo spettacolo che si staglia è quello di una festa, di un banchetto che ricorda molto quelli che si tenevano in casa del conte Costabili, tanto mitici da essere invidiati persino dall’elegante Isabella d’Este. L’affresco en tromp-l’œil riproduce, al centro, una cupola illusionistica la cui struttura è formata da quattro pilastri decorati con delle figure a monocromo. Quest’architettura – dallo stile bramantesco – non chiude completamente lo spazio al di sopra delle teste delle figure dipinte, lasciando in questo modo intravedere un cielo blu mattutino. A una moltitudine di figure umane, si mescolano scimmie, gatti e diversi strumenti, tutti chiaramente identificabili, che restituiscono uno spaccato delle abitudini mondane di una società particolarmente dedita allo sfarzo.

Foto di Aurora Bollettinari

Osservando l’opera, l’impressione che si ha è che Garofalo abbia concepito la scena in modo tale da creare uno scambio reciproco tra le figure dipinte e lo spettatore. Molti dei personaggi presenti nell’affresco ci osservano divertiti, ci offrono, o semplicemente ci mostrano, oggetti e frutti. Così, la donna con la veste violetta rappresentata su uno dei due lati corti della sala, ci mostra un liuto, come se volesse invitarci a suonare per lei. La particolarità delle scelte di Benvenuto, relative ai soggetti musicali o musicanti, risiede in un gioco di contrasti. Tra i numerosi strumenti riprodotti, solamente uno è davvero suonato da una giovane ragazza dai capelli biondi. I restanti, infatti, ci vengono semplicemente mostrati senza emettere alcun suono. Questa contrapposizione tra musica e silenzio non è estranea all’opera di Celio Calcagnini, vero ispiratore dell’affresco. In effetti, in uno dei suoi scritti, l’umanista tratta della sympathia che egli spiega con un esempio musicale. Così dunque leggiamo che, nelle composizioni, se si pizzica la corda di uno strumento, anche le altre risuonano perché sono interessate dalle vibrazioni prodotte. L’armonia è quindi il risultato di silenzio e musica, in un gioco di equilibri necessario per riprodurre un concentum.

Foto di Aurora Bollettinari

Tutto, nell’affresco, parla di amore. Sulla balaustra, riscontriamo la presenza di diversi amorini. Uno di loro tiene in mano un grappolo d’uva, generalmente simbolo di fertilità che rinvia alla figura di Bacco. E in effetti Bacco è allo stesso tempo potenza e produttività della Natura che permettono la maturazione dei frutti. Non è un caso quindi che il putto tenga in mano un grappolo d’uva e ci mostri il suo membro, perché il mito bacchico è strettamente legato alla sessualità e alla forza vitale. Sulla volta, pesche, melegrane e arance alludono al matrimonio e alla fedeltà. Non sarà inutile ricordare a questo proposito che, poco tempo prima della realizzazione dell’affresco, si erano consumate nel cortile di Palazzo Costabili le nozze del figlio di Antonio. Ma l’affresco non si esaurisce con la rappresentazione dello sfarzoso banchetto visibile sul soffitto della Sala del Tesoro. Diciotto lunette a monocromo, infatti, costituiscono un ciclo pittorico riguardante il mito di Eros e Anteros, secondo la lettura che Celio Calcagnini evoca nel suo poemetto Anteros sive de mutuo amore dedicato proprio al suo amico Antonio Costabili. Si sa infatti che il conte aveva adottato la massima del diligentes me diligo che era visibile in tutte le sale del suo palazzo, tramite gli affreschi che lo decoravano, molti dei quali andati perduti. Lo studio sul ciclo pittorico di Eros e Anteros condotto da Schwzrzenberg ha introdotto una tendenza a considerare gli affreschi delle diciotto lunette come un’opera indipendente rispetto alle pitture presenti nel soffitto. Il restauro del 2007 ha invece invertito questa tendenza critica ed oggi le due parti della decorazione vengono considerate come dialoganti tra di loro per mezzo della complessa rete di simboli,  che ha l’effetto di mettere in luce la raffinatezza di una committenza che era tenuta in grande considerazione in un periodo di acceso fervore culturale.

Foto di Damiano Tancredi Buffa

La Sala del Tesoro, capolavoro troppo spesso lasciato da parte, ha il merito non solo di allietare l’occhio e l’anima, ma anche di restituire in immagini quello che era un ambiente socio-culturale invidiabile e invidiato in tutta Europa. Se la realizzazione di un’opera tanto raffinata ha potuto compiersi, questo è per merito dei tre uomini illustri nominati all’inizio di questo articolo e di cui, sfortunatamente, dovrò continuare a sognare la compagnia.

Foto di Damiano Tancredi Buffa

Damiano Tancredi Buffa nasce a Palermo nel 1994. Nel 2015 è a Bologna per intraprendere gli studi alla facoltà di Lettere. Dopo aver conseguito la laurea triennale, si trasferisce a Parigi, dov’è attualmente iscritto al corso di Gestione del Patrimonio Culturale all’università Pantheon-Sorbonne. Da Gennaio 2020 segue uno stage al Dipartimento delle Pitture del museo del Louvre, per specializzarsi sul Rinascimento italiano. Innamorato di Arte, Cinema, e Letteratura, è anche vittima di una passione smodata per il Calcio.


Foto di Aurora Bollettinari