Cosa abbiamo letto a Febbraio in redazione
Arboreto selvatico
Mario Rigoni Stern
Einaudi, 2015

L’agile libretto di Rigoni Stern (1° ed. 1991) si presenta, al primo approccio, come uno dei tanti trattati di botanica disponibili in commercio, ma, una volta iniziata la lettura, si comprende subito come l’indagine fitologica sia solamente il pretesto per imbastire un attento studio culturale, storiografico, letterario e geografico della flora dell’altopiano di Asiago, paradiso terrestre e principale scenario della produzione letteraria rigonisterniana. La tensione sentimentale e il coinvolgimento emotivo che infarciscono la descrizione di ciascuna delle venti piante che Rigoni Stern presenta al lettore, infatti, genera zone di assoluta intimità, spazi in cui l’autore si lascia andare al ricordo provocato, come in un’epifania, dalla sola vista di questi alberi. Ecco che, posando lo sguardo su ogni arbusto dell’altopiano, lo scrittore rivive le care narrazioni dei nonni, la traumatica esperienza della guerra, il fenomeno dell’industrializzazione e gli attuali fermenti storici, lasciando intendere come, alle radici di questa ossessiva furia nomenclatoria, risieda un disperato bisogno di attingere all’acqua purissima e salvifica della fonte della letteratura. Arboreto Selvatico è sicuramente un’opera poco valorizzata dalla critica letteraria italiana, ma non per questo meno meritevole di essere letta, apprezzata e sviscerata dall’eclettico lettore in cerca di un testo capace di confinare nel medesimo spazio letterario gli infiniti stimoli che la Natura è in grado di offrire all’umanità.
La casa della fame
Dambudzo Marechera
Racconti, 2019
trad. it. Eva Allione

Questo breve romanzo di Marechera, profeta giovane e dannato dello Zimbabwe (che ancora aveva nome Rhodesia all’epoca della stesura), è un pugno nello stomaco, secco e inaspettato, con un’enfasi che travolge. Uscito nel 1978 e pubblicato per la prima volta in traduzione italiana nel 2019, dalla piccola ma validissima realtà Racconti edizioni, narra attraverso una prima persona altalenante nel suo autobiografismo, le brutture della povertà, del colonialismo, della discriminazione. Con un filtro che lascia passare ogni dettaglio più crudo, il protagonista e narratore quasi si costringe a politicizzare la sua esperienza, pur convinto, nella propria disillusione e inutilità, dell’insensatezza del quotidiano e triviale suo vivere («No, non è che odio essere nero. Sono solo stanco di dire che è bello. No, non è che odio me stesso. Sono solo stanco della gente che si ammacca le nocche sulla mia faccia»). Nel corso dei deliri e degli sfoghi in cui si articola la confusa trama, che abbraccia un lungo corso d’anni, a partire dalla fanciullezza, Marechera vomita tra le pagine tutto il suo disprezzo verso una società in cui l’essere umano è bestia, in cui la donna non esiste se non come prolungamento, escrescenza dell’uomo, ed entrambi sono martoriati da un modello europeo al quale invero non può riconoscersi alcuna superiorità morale. La penna dello scrittore ondeggia con studiato disordine tra picchi di lirismo e fondi di oscenità e barbarie, rendendo un’idea di “sporco” anche nel più nobile dei discorsi: quello sull’anima. Il messaggio che resta è che edulcorare la Storia è una stupidaggine sia per chi la fa che per coloro che la subiscono. Mentre la Rhodesia lottava per l’indipendenza, dunque, Dambudzo Marechera regalava alla letteratura africana e mondiale il proprio, sublime, canto del cigno, prima di abbandonarsi all’infelice destino del suo spirito maledetto, trovando la morte solo nove anni dopo (1987), all’età di 35 anni, alcolizzato, sieropositivo e poverissimo.
Trumpland
Francesco Di Benedetto
2021

Trumpland di Francesco Di Benedetto non è solo un libro fotografico utile a comprendere da vicino, a “tastare” visualmente il polso di un’America apparentemente lontana a livello temporale – in realtà ancora vicinissima, dato che le diacronie dilatate di questo tempo eternamente presentizzato rendono lo ieri mai così prossimo all’oggi –, ma è anche e soprattutto un’autobiografia per immagini di una nazione, con i suoi riti, le sue proteste, le sue evidenti dissonanze, le sue manifestazioni d’essere e d’intenti. In questo racconto suddiviso in due macrosezioni – l’Election Day dell’8 novembre 2016 e la Women’s March del 12 novembre, tenutasi a Manhattan appena quattro giorni dopo la vittoria inaspettata di Trump – Di Benedetto mette in mostra, nei suoi colori, nelle sue contraddizioni, nelle sue variopinte propaggini, una mappatura visiva dell’impossibile diventato possibile, della festa tramutatasi in disastro, dello scontento e dell’insofferenza di una popolazione che lotta per (ri)affermare i propri diritti, per difenderli e far sentire unita la propria voce. Alternando significativamente i fuochi opposti di un’orbita collettiva mai come allora estremamente polarizzata – i supporters e i contestatori, i vincitori e i vinti, gli entusiasti e i resistenti –, Di Benedetto fornisce a noi osservatori immagini potenti, vivide, a tratti carnevalesche, frammenti iconici di sguardi, gesti, fisionomie di un’umanità in rivolta, che vanno a formare le tessere di un mosaico eterogeneo, composito e articolato, capace di rappresentare perfettamente gli esordi agitati e impervi di un momento storico che sembra essere definitivamente alle nostre spalle, ma le cui ombre continuano a proiettarsi spesse sul nostro sofferto presente.
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