Fotografia

Il reale fotografico / Su Gianni Berengo Gardin


Per gli altri articoli di Niccolò

La fotografia di un uomo e una donna colti alle spalle, seduti uno a fianco all’altro dentro una macchina (una Minor 1000 del ’69) parcheggiata davanti al mare leggermente mosso l’abbiamo vista tutti o quasi tutti; un panorama vasto e immobile che si allarga oltre il profilo centrale dell’abitacolo scuro, nuvole di un grigio chiaro incombenti nel cielo, una scogliera frastagliata all’orizzonte, due teste che fanno capolino dai sedili, la curva del volante posizionato a destra. Eppure, questa è solo una delle tante foto iconiche scattate nell’arco di una carriera pluridecennale da Gianni Berengo Gardin, maestro indiscusso del reportage in bianco e nero che ha compiuto novant’anni lo scorso ottobre. Nato a Santa Maria Ligure, ma veneziano per origine famigliare, senso di appartenenza e affinità intima alla città lagunare, Berengo Gardin comincia a fotografare con gusto, passione e una certa ossessiva costanza (propria, d’altronde, di tutti i grandi fotografi) dagli inizi degli anni Cinquanta, prima come fotoamatore nei circoli di quegli anni, come quello della “Gondola”, dove fa le prime amicizie, le prime esperienze e incontra futuri sodali come Paolo Monti e Bepi Bruno, poi come professionista a partire dagli anni Sessanta, dopo aver studiato e affinato la propria tecnica fotografica e compositiva a Parigi, anche grazie all’aiuto e ai suggerimenti dello zio Fritz Redl, esule in America e amico di Cornell Capa (fratello del celebre Robert), che gli procura non solo autorevoli riviste come Infinity o Popular Photography Life, ma anche rulli di pellicole preziose (Ansco da 400 Asa), nettamente migliori rispetto a quelle acquistabili in Italia.

Venise des saisons, fotolibro del 1965 che racconta una Venezia nebbiosa, crepuscolare e lontana da stereotipi e chlichè già allora abusati anche visivamente, rappresenta la consacrazione iniziale di una parabola lavorativa e artistica che da quel momento in poi sarà in netto crescendo, per qualità e quantità, e stanno lì a dimostrarlo gli innumerevoli premi prestigiosi e internazionali ricevuti, come l’Oscar Barnack Award e il Lucie Award alla carriera, le retrospettive e le monografie che gli sono state dedicate, le oltre 200 mostre organizzate in giro per il mondo e le numerosissime pubblicazioni che hanno costellato la sua vita, dagli esordi sino ad ora. Nel 1968 con il libro fotografico Morire di classe, che raccoglie scatti realizzati da Berengo Gardin e Carla Cerati nei manicomi di Gorizia (gestito all’epoca da Franco Basaglia), Firenze e Colorno, per la prima volta vengono testimoniate fotograficamente in Italia le terribili condizioni in cui versano gli ospedali psichiatrici e i trattamenti crudeli e disumani che subiscono i malati che vi sono rinchiusi dentro, dando così un forte impulso al processo di riforma in atto nel nostro paese, che culminerà poi nella “Legge  Basaglia” del 1978 e nel superamento del sistema manicomiale e delle sue logiche repressive e costrittive.

Seguono poi L’ occhio come mestiere, Toscana, Francia, Gran Bretagna, Roma, Dentro le case, Dentro il lavoro, Scanno, Il Mondo, Un paese vent’ anni dopo, In treno attraverso l’ Italia (con Ferdinando Scianna e Roberto Koch), l’estesa antologia Gianni Berengo Gardin Fotografo (1990), La disperata allegria. Vivere da Zingari a Firenze, Zingari a Palermo e, venendo ai progetti degli ultimi anni, la maggior parte dedicati all’amata Venezia, Peggy Guggenheim, la casa, gli amici, Venezia (2009), L’Aquila prima e dopo (2012) e Venezia e le grandi navi (2015) – quest’ultimo certamente uno dei suoi lavori più importanti, per iconicità, impatto delle immagini e per il messaggio di denuncia che esse veicolano. Il volume raccoglie infatti foto scattate dal 2010 al 2014, sempre immancabilmente e rigorosamente in bianco e nero, capaci di testimoniare con forza e perfetta eleganza stilistica i pericoli e i rischi quotidiani che la città è costretta a sopportare a causa del passaggio costante e frenetico delle grandi navi da crociera, veri e propri molossi che indugiano nelle acque della laguna e giganteggiano sulle fragili costruzioni architettoniche della Serenissima, incutendo paura e angoscia nell’occhio di chi guarda allarmato.

Influenzato dalla fotografia francese, in primis da Cartier-Bresson e Willy Ronis, suo vero maestro, Gianni Berengo Gardin ha saputo cogliere e illuminare meglio di chiunque altro, con predisposizione potremmo dire antropologica, alcuni squarci, angoli, frammenti tipici dell’Italia del secolo scorso, imprimendo su pellicola momenti, riti, vezzi e fatiche, ma soprattutto volti e corpi di un paese che non esiste più, un paese che la Storia ha irrimediabilmente cambiato negli usi, costumi, abitudini e tanto altro. Le sue fotografie, dal carattere solo apparentemente dimesso e “naturale”, tratteggiano con sincerità, senza voler indugiare in paternalismi o pedagogismi di alcuna sorta, uno spaccato multiprospettico, al contempo tragico e comico, serio e faceto, della vita politica, sociale, economica e culturale dell’Italia dagli anni del boom a oggi, mettendo sempre al centro l’uomo, la sua dignità, il suo riserbo, il suo dolore, il suo coraggio. Lo sguardo sul mondo di Berengo Gardin rivela una genuina affinità, un’empatia vera e mai forzatamente esibita, con le persone, i loro luoghi e i loro gesti minimi, ripetitivi, quotidiani, capaci di disvelare nel dettaglio il senso di un’intera esistenza, e si sublima nella capacità di cogliere il reale senza edulcorarlo o teatralizzarlo, ma rimanendo fedele all’attimo, all’istante essenziale in cui il reale stesso diventa altro, diventa foto, scheggia di spazio fattasi memoria, riflesso eterno di un noema svanito e ora protetto dal flusso letale e inesorabile del tempo. L’emozione che i suoi scatti trasmettono non è costruita, artificiale, ma deriva da una vocazione sociale sincera, da un accostamento rispettoso, quasi ossequioso, alla situazione ritratta, che sia essa una piazza, un viso, un paesaggio all’orizzonte, una folla. Più artigiano che artista, come ama spesso definirsi, Gianni Berengo Gardin ha il dono di una naturalezza compositiva che gli permette di osservare la realtà che lo circonda sempre in tensione e sempre in ascolto, pronto a registrare le sue manifestazioni fugaci, semplici, immediate ma rivelatorie. La sua fotografia sembra voler trattenere il respiro, non rivelarsi interamente. Essa non vuole spiegare tutto, non vuol dire tutto, vuole significare solo a metà, illuminare l’attimo e non di più, non pretende di esaurirsi in un giudizio o in una critica, tale incombenza non le spetta.

 

Gianni Berengo Gardin ha saputo cogliere e illuminare meglio di chiunque altro, con predisposizione potremmo dire antropologica, alcuni squarci, angoli, frammenti tipici dell’Italia del secolo scorso

Dotato di un talento formale indiscutibile, Berengo Gardin è ed è stato, per usare le parole di Ferdinando Scianna, un altro che di fotografia un po’ se ne intende, «uno dei grandi narratori del paesaggio visivo soprattutto italiano», paesaggio visivo che è anche sempre paesaggio esistenziale, del farsi pragmatico e al contempo emozionale ed espressivo dell’uomo. Attraverso la forma precisa e il racconto puntuale, le sue fotografie hanno sondato, auscultato e ritratto le tante, eterogenee e composite anime di un paese colto nel vivo della sua maturazione generazionale, fatta di altalenanti periodi chiaroscuri, luci e ombre, momenti di pace, momenti di lotta e di angoscia. Sempre fedele al suo sguardo, a un certo tipo di postura da sostenere nei confronti dell’alterità del mondo, a un certo ideale umanitario da assecondare e difendere, Gianni Berengo Gardin ha narrato per immagini, senza drammaticità eccessiva, senza mai forzare il pathos dello scatto o dell’inquadratura, senza mettere mai in posa nessuno (litigò con Doisneau proprio per questo), il tempo che fluisce, muta, si evolve e le trasformazioni che inevitabilmente ne conseguono, intaccando e trasfigurando ogni cosa. Non è forse questo uno dei maggiori compiti della fotografia?


Niccolò Amelii è nato nel Novembre del 1995 ad Atri (TE). Dopo aver conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università di Siena, si è laureato nel 2020 in Editoria e scrittura all’Università La Sapienza. Attualmente è dottore di ricerca in Lingue, Letterature e Culture in Contatto presso l’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Collabora con “Flanerí” per la sezione di critica letteraria, ha pubblicato articoli saggistici e racconti su diverse riviste e blog, tra cui “Diacritica”, “Nazione Indiana”, “Altri Animali”, “The Vision”, “Kobo”, “Clean”, “Poetarum Silva”, “Pastrengo”, “Antinomie”, “Micorrize”, “Limina”, “Suite Italiana”, “Grado Zero”, “Scenari”, “Dude Mag”, “Grande Kalma”.  


Photo by Markus Spiske on Unsplash