Per gli altri articoli di Yuri
La poesia, in quanto massima espressione culturale di una pluralità, ha una caratteristica che la diversifica e la eleva su tutte le arti, la quale consiste in una naturale propensione ad assorbire la tragicità dei destini umani per corroborare la propria essenza. Storicamente, infatti, è durante le epoche più buie che i poeti hanno consegnato alla letteratura i versi più emblematici e significativi della loro produzione, spesso perché era nella composizione di suoni e ritmi che l’anima trovava la quiete necessaria a sopportare il caotico frastuono del mondo. In un duemilaventi fatalmente segnato dalla pandemia, quindi, la poesia rappresenta più che mai l’ancora di salvezza del nostro essere, come la consegna del Nobel per la letteratura a Louise Glück ha voluto ricordarci. La stessa Glück ha trovato nell’arte poetica un riparo, una salvezza, un “locus amoenus” in cui respirare a pieni polmoni e sentirsi finalmente viva, prendendo così una pausa dall’arduo scontro imbastito contro quella parte di sé che, dinanzi alle sofferenze psicofisiche dell’anoressia e della depressione, avrebbe preferito togliersi la vita. Per Louise Glück, innanzitutto, la scrittura poetica è stata la chiave d’accesso alle zone d’ombra della propria psiche, le quali nascondevano un conflittuale rapporto con la madre e il soffocante ricordo della sorella maggiore deceduta, nonché una cervellotica concezione della sfera sentimentale. Saranno queste le premesse su cui si fonderanno le poesie della raccolta d’esordio “Firstborn” (1968), costellata da immagini di rinascita, spesso legate alla maternità, ma sempre inquiete, imperfette, perturbanti, aride di sentimento come i paesaggi in cui sono collocate. Pur non rappresentando l’apice della sua produzione, già dalla prima raccolta si possono rilevare le principali caratteristiche della poesia gluckiana, ossia la raffinatezza formale e la forte influenza della lettura di Sylvia Plath e di Anne Sexton, le due poetesse a cui Louise Glück non nasconderà mai il merito di aver rivoluzionato profondamente la propria concezione di poesia.
Per Louise Glück, innanzitutto, la scrittura poetica è stata la chiave d’accesso alle zone d’ombra della propria psiche
Con l’uscita di “The House on Mashland” (1975), l’autrice raggiunge quella compressione lirica, fatta di forte tensione ritmica, improvvise inarcature e scarsa propensione alla rima, che rappresenterà la cifra stilistica di gran parte della sua produzione matura. Anche in questa raccolta, come nella precedente. il passato dell’autrice invade lo spazio poetico, soprattutto nei testi in cui l’infanzia e la mitologia convivono nella medesima strofa, spesso offrendo fertile terreno alla stratificazione dei significati; inoltre, è una presenza costante quella del tema amoroso, sempre svuotato di ogni affettività e costantemente avvicinato a immagini mortifere, ma al contempo, nel modo in cui l’autrice lo adatta al contatto con i vari enti del reale, l’amore diventa il mezzo per esprimere una precisa volontà poetica, cioè quella di rappresentare in versi un prontuario fisiologico della passione. A occupare principalmente la scena, però, c’è indiscutibilmente la natura, la quale catalizza a sé una sterminata serie di riferimenti archetipici e mostra un vitalismo degenerato, distorto, ma peculiare di una postmoderna revisione della tradizione bucolica.

La Louise Glück degli anni Ottanta (“Descending Figure”, 1980; “The Triumph of Achilles”, 1985; “Ararat”, 1990) porta all’esasperazione le tematiche delle prime due raccolte, come l’attenzione per il mondo naturale, l’analisi delle emozioni, il ricorrente spettro della morte e la passione per la mitologia, ma introduce al contempo nuovi interessanti campi d’indagine. È il caso dell’ossessiva presenza di immagini di sdoppiamento, le quali, essendo spesso rafforzate a livello retorico, permettono la creazione di una “semiotica dello specchio”; nell’ottica di un costante approfondimento della tematica mitica, poi, è interessante notare come in queste raccolte abbia sempre più peso la componente cristologica, spesso associata alla figura paterna; infine, si può apprezzare una crescente volontà di emancipare l’istituzione sociale della famiglia dal cono d’ombra, fatto di rimozioni, censure e paure, che la poetessa stessa aveva costruito intorno alla propria, ma senza precludersi la possibilità di riferirsi alla sfera familiare nel suo significato più universale. In queste opere, Louise Glück affronta pienamente i suoi demoni, accetta i suoi traumi, si scopre più umana che mai e, contemporaneamente, utilizzando il mezzo poetico in funzione terapeutica, permette al lettore di accedere agli interstizi più segreti della sua psiche. “The Wild Iris” (1992), opera che avrà una certa diffusione anche in Italia a seguito del Pulitzer, si collega alle raccolte precedenti per il tramite naturale, non a caso i titoli delle poesie insistono sulla nomenclatura botanica, ma al contempo si stacca dalla tradizione gluckiana per volontà d’intenti poetici. In questi testi, infatti, Louise Glück si dimostra capace di connettere, sfruttando i temi archetipici di tempo e senso dell’esistere, la voce della natura con quella degli esseri umani, per poi arrivare, diffondendosi a macchia d’olio, ad includere anche le numerose voci del mondo spirituale, ricostruendo così poco alla volta il moto armonico nel quale è catturato l’universo intero. A questa altezza, la poesia di Louise Glück ha raggiunto la sua forma più complessa e, nella volontà di costringere ogni elemento del microcosmo e del macrocosmo all’interno di una pagina, i significati si giustappongono costantemente, rendendo lo stile sempre più sublime. Un’altra raccolta degli anni Novanta che merita uno sguardo ravvicinato è sicuramente “Meadowlands” (1997), la quale si presenta come la rivisitazione moderna della vicenda matrimoniale tra Ulisse e Penelope, inserendosi così nel filone nordamericano, di cui fa parte anche “Autobiography of Red” (1998) di Anne Carson, di quelle opere in versi che si caratterizzano per la volontà di attualizzare il mito classico. Louise Glück destabilizza, come già aveva fatto Joyce a inizio secolo, la tradizionale sacralità del modello mitico attraverso quotidiani dialoghi tra moglie e marito, saltuariamente tramite lunghi monologhi di uno degli sposi, che evidenziano una irrecuperabile crisi del rapporto matrimoniale e, contemporaneamente, riflettono l’incapacità degli uomini moderni di instaurare legami solidi. Lo stile frammentato, l’incomunicabilità del linguaggio e la condanna implacabile dell’istituzione matrimoniale sono solo i primi segnali di una Louise Glück che, nel corso delle raccolte successive, diverrà ancor più introversa e meditabonda, come si potrà apprezzare già da “Vita Nova” (1999), in cui l’amore e la morte, seguendo un modello dantesco, verranno a delinearsi come elementi mutuamente necessari e la loro essenza sarà il principale oggetto di ricerca delle molteplici voci che, come un coro del teatro greco, si insinueranno nel canto poetico.
“The Seven Ages” (2001) segna un momentaneo ritorno alle origini della poesia di Louise Glück, poiché in quest’opera è possibile nuovamente apprezzare i toni bucolici e la densa stratificazione di significati delle prime raccolte, per quanto riguarda i testi ambientati all’esterno, e le soffocanti e perturbanti rappresentazioni della sfera domestica e familiare, nei casi in cui si presenta un’ambientazione interna. La caratteristica principale di questa raccolta, però, risiede nella costante negazione di ogni temporalità, fattore che costringe a collocare gli elementi testuali in un presente fluido, costantemente oscillante tra un passato irrecuperabile e un futuro irrealizzabile. Questa condizione al limite del metafisico è rappresentata stilisticamente attraverso lo scardinamento della sintassi e l’esplosione delle figure fonetiche, elementi volti ad appesantire la lettura testuale. Con “Averno” (2006) e “A Village Life” (2009), Louise Glück propone una mitizzazione dell’ordinario attraverso dicotomie archetipiche, quali l’anima e il corpo, il bene e il male, la vita e la morte, le quali si presentano, però, sempre sfumate e incerte, come a rimarcare costantemente la loro impossibile nitidezza nel caos del mondo odierno; inoltre, insiste su una tolemaica concezione della realtà in cui, al centro di tutto, c’è l’essere umano e il suo imperfetto breve tempo di vita. Da apprezzare il rinnovamento stilistico di queste due raccolte in cui, all’incisività della parola, si preferisce un tono fluido e descrittivo, ma non per questo meno adattabile alla riflessione filosofica. L’ultima raccolta sinora pubblicata, “Faithful and Virtuos Night” (2014), segna un’ulteriore evoluzione nella poetica di Louise Glück, dal momento che l’autrice ci presenta una storia che, sfruttando una maschera fiabesca (i protagonisti sono due bambini che hanno perso i loro genitori in un mondo di ombre e giochi di luce), si rivolge direttamente alle più intime paure degli esseri umani, cioè la solitudine e la perdita d’identità, cercando di raggiungere la sensibilità di ogni lettore ma astenendosi dal patetismo e dal sentimentalismo. È una Louise Glück che esamina le pieghe della psiche indagando la concretezza della lingua, quella di queste poesie, le quali, inoltre, mantengono il tono descrittivo delle ultime due raccolte. Quello che emerge stilisticamente, invece, è soprattutto la volontà dell’autrice di raggiungere il punto di contatto tra la prosa e la poesia, cioè quella costante ricerca, tanto cara ai modernisti novecenteschi, del sodalizio tra comunicabilità e lirismo.
Louise Glück esamina le pieghe della psiche indagando la concretezza della lingua
Ripercorrere il percorso poetico di Louise Glück non significa semplicemente indagare la grandezza e l’unicità della sua voce, capace di rendere universale l’esistenza individuale per mezzo di un’austera bellezza. Assaporare gli aspri versi di queste raccolte, immergersi nel liquido amniotico che sommerge ogni parola e paura, osservare la crudele furia che disintegra ogni istituzione, significa mettersi di fronte alla condizione umana, accettarla e amarla, dal momento che è impossibile odiare qualcosa capace di distillare arte dal dolore.
Yuri Sassetti è nato il 15 gennaio 1995 a Siena. Una volta conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università degli Studi di Siena con una tesi sulle figurazioni del vampiro nella letteratura gotica inglese, decide di proseguire il percorso di formazione nella città dove è nato iscrivendosi a Lettere moderne ma specializzandosi nelle letterature straniere. Ama leggere e scrivere poesie, suona la chitarra in una band e trova interessante il cinema impegnato. Attualmente sta pensando alla raccolta e pubblicazione di una serie di saggi di critica letteraria.
Photo by amirmasoud on Unsplash