Filosofia

Scelta e scopo


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Se tutti nell’universo avessero uno scopo? Se per ogni persona esistente ci fosse un obiettivo prestabilito da compiere? Sarebbe sciocco pensarlo, sotto un certo punto di vista. D’altronde, al di fuori delle distopie alla Brave New World – il capolavoro di Aldous Huxley in cui a ciascuno è assegnato uno specifico compito all’interno di una società castale – quasi nessuno nasce con un ruolo prestabilito. Esclusi rari casi dovuti al capriccio della sorte, come si vede ad esempio nei film di vendetta, ognuno deve scegliere il proprio obiettivo di vita, anche solo inconsapevolmente. Non tutti, però, riescono a raggiungerlo; mentre altri vivono senza neppure scoprire qual è il proprio scopo, ciò per cui sono portati. Non tutti ne hanno la possibilità, semplicemente. Se tutti ne avessero uno – di obiettivo prestabilito – che cosa succederebbe? Ognuno tenderebbe a un qualcosa, qualcosa che gli darebbe una felicità proveniente dalla libera espressione della propria interiorità. Ma in questa vita magari quell’individuo pensa di non poterla ottenere e quindi lo spaventa non solo il proprio compito, che certuni riescono a svolgere (almeno in apparenza) tranquillamente, ma il provare anche solo ad eseguirne i passaggi, o peggio a sceglierne uno. Questo è il problema al centro dell’indagine esistenzialista: la scelta.

Quel che si decide di fare è fondamentale, poiché non possiamo conoscere a priori quale sarà l’esito delle nostre azioni. Se non percepissimo il tempo così come lo percepiamo, ovvero se riuscissimo a conoscere l’esito certo delle nostre azioni, non avremmo problemi a perseguire i nostri obiettivi. Se ci mettessimo, dunque, nella prospettiva in cui il tempo è visto come una dimensione fra le altre, percorribile in più direzioni, allora ogni essere vivente saprebbe cosa scegliere e perché sceglierlo. Saprebbe però riconoscere il suo obiettivo? Certo. Se conoscesse tutti i possibili esiti – e dico compresa la moltitudine di esiti finali dovuti alla meschina infallibilità dell’effetto farfalla e, in ultima analisi, anche ai suoi stati intermedi – a ciascuno basterebbe l’arco della propria vita per riuscire a raggiungere l’obiettivo che si è prefissato. Conoscendo la causa del suo amore, sarebbe spinto a fare ciò che gli dà più gioia e meno tristezza fare, al fine di raggiungerla. Ciò, Aristotele lo chiamava, appunto, “causa finale”. Ma spesso l’arco di una vita non basta, poiché magari ogni esito possibile è negativo, oppure perché, come nel nostro caso, viviamo dentro il flusso del tempo e dunque ci è vietato conoscere le possibili forme che potrebbe assumere la nostra persona. Eppure, già solo questa consapevolezza spuria ci interroga su quale sarebbe l’obiettivo che ha più probabilità di riuscire e garantire la maggior quantità di gioia durante il suo conseguimento, nonché inseguimento.

Qualcuno potrebbe osservare che avere un figlio potrebbe essere considerato un obiettivo universalmente accettabile, ma così non è, poiché, oltre al retaggio anacronistico di tale eventuale convincimento, messo in dubbio ormai da decenni da una nuova consapevolezza del sé e della società che scardina vecchi e abusati schematismi dogmatici, non in ogni condizione è facile o possibile. Inoltre, il problema demografico oggi è strettamente connesso a quello riguardante la sovrappopolazione, che già attualmente mette a rischio gli equilibri dell’ecosistema e del rapporto uomo-natura, e non può essere più affrontato prescindendo da questa prospettiva. La competizione poi non aiuta. Ancora meno aiuta il suo aumento. Più competizione significa minori possibilità di riuscita. Minori possibilità di riuscita portano taluni a puntare all’obiettivo più immediato senza curarsi degli altri, che vorrebbero ottenere magari la stessa cosa, per quanto quella cosa possa essere potenzialmente condivisa da più di una persona. All’interno di questo meccanismo, ogni cosa ottenuta da qualcuno viene (anche solo virtualmente) sottratta ad altri. Ciò provoca tristezza e la tristezza, dichiarava Spinoza, quando è associata alla presenza di una causa esterna, produce odio. L’odio è a sua volta una cosa negativa sia per coloro che lo subiscono, sia per coloro che lo provano, siccome ogni movimento di tristezza è di per sé sempre negativo, poiché accompagna sempre una minor pienezza di essere, e cioè un minor senso di realizzazione.

Se tutti ne avessero uno – di obiettivo prestabilito – che cosa succederebbe? Ognuno tenderebbe a un qualcosa, qualcosa che gli darebbe una felicità proveniente dalla libera espressione della propria interiorità. Ma in questa vita magari quell’individuo pensa di non poterla ottenere e quindi lo spaventa non solo il proprio compito, che certuni riescono a svolgere (almeno in apparenza) tranquillamente, ma il provare anche solo ad eseguirne i passaggi, o peggio a sceglierne uno. Questo è il problema al centro dell’indagine esistenzialista: la scelta

Dato che la gioia accompagna, invece, sempre un movimento verso un maggior senso di soddisfazione, allora sarà preferibile quando una causa esterna sia associata ad essa. Questo sentimento è detto amore. Non bisogna pensare, però, che l’amore basti da solo per essere definito buono. L’amore che deriva da forti passioni, che controllano l’uomo più della sua stessa volontà, rende quest’ultimo loro schiavo. Solo l’amore per ciò che proviene da una libera scelta, presa dal lato conscio di quella persona, può essere detto buono in assoluto per quella stessa persona. Anche per questo motivo diventa fondamentale rispondere bene alla domanda su che cosa sia auspicabile per ciascuno. Mettiamoci di nuovo nella prospettiva per cui ognuno sa solo che un’azione potrebbe portarlo alla sua felicità. Se sapesse quale, eseguirebbe quella per raggiungere questa. Ma non lo sa. Ha solo la consapevolezza che esiste. Questo dato si traduce in un fattore probabilistico. Semplificando, il fallimento è “0”, la riuscita è “1”. La vicinanza con quest’ultima determina tutti numeri che si trovano nel mezzo, fra uno e zero. Tante probabilità per una stessa vita (nella forma di “universi paralleli”) sono previste da alcune versioni della teoria delle stringhe, dalla teoria dell’universo a bolle e dall’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica. Fra tutte quelle probabilità, ognuno di noi tende a quell’ “1”, come verifica attesa dal risultato di una complessa equazione piena di variabili e covarianti. Ma solo una, o qualcuna, delle infinite azioni possibili ad ogni istante porta al verificarsi di quella probabilità. Inseriti nel tempo, sappiamo solo che c’è la possibilità che quell’ “1” si verifichi. Se si verificasse saremmo felici per sempre. Se considerassimo questi tentativi come “consecutivi” (per semplificare, dato che stiamo parlando di categorie che non hanno a che fare con la comune concezione del tempo, tanto ne sono oltre) allora in tal caso non ne servirebbero altri. Una volta raggiunto l’ “1” il calcolo si ferma e quella vita è verificata agli occhi della meccanica quantistica: si è “svolta”, ovvero è giunta al proprio fine, al raggiungimento di ciò che Schopenhauer chiamava “Noluntas”, ovvero l’incapacità di desiderare altro, e che Induisti e Buddhisti chiamano Nirvana, la pace dei sensi, intesa come raggiungimento degli obiettivi di tutte le vite passate, compresa non solo quella che si sta vivendo e quella che auguratamente porta al fine ultimo, ma anche le virtualmente infinite vite di cui un essere vivente è versione incarnata attraverso altrettante possibili dimensioni alternative.

Si potrebbe raggiungere l’ “Illuminazione” dei Buddhisti Zen anche solo ponendosi la domanda: “Perché non mettere fine a tutta questa sofferenza facendo sì che questa sia la mia ultima vita?”. Se torniamo a considerare le sofferenze accumulate durante le varie “vite parallele” – ipotizzate non solo dai testi sacri Indù, ma anche da moltissimi scienziati contemporanei – come consecutive nei valori compresi tra “0” e “1”, la domanda assume un significato non solo metafisico, riguardante l’importanza della libertà di scelta per giungere all’auto-realizzazione, ma anche spirituale, riguardante il raggiungimento del benessere interiore, provocato non tanto dalla presenza di piaceri terreni – e questo è fondamentale –, quanto dall’assenza di qualsiasi eventuale turbamento, tramite il controllo sul modo (disinteressato o meno) di recepire i normali eventi di una vita e, infine, grazie a una visione “dall’esterno”, tipica delle religioni indiane. Agli scettici che non vedono di buon occhio la “Noluntas” o il Nirvana, noi rispondiamo: c’è solo gioia, se non hai dolore.

Questa potrebbe essere considerata, dunque, la definizione generale dell’aspirazione di ogni persona od essere vivente: il raggiungimento stesso del fine ultimo delle varie vite, verso il quale naturalmente tende il nostro Io, considerato come versione di sé in una delle infinite possibilità di collocazione della forma. Anche se gli “universi paralleli” delle teorie scientifiche non esistessero, questa definizione generale avrebbe comunque valore: il raggiungimento di un fine è il fine stesso a cui tutti devono tendere. Non importa quale sia, purché provenga dall’interno. Ogni vita ha il proprio significato, in fondo, che uno l’abbia scelto consapevolmente o meno, che i vari uragani di probabilità l’abbiano messo sul binario giusto per capire quale esso sia o meno. Gli altri lo vedranno e lo interpreteranno a loro volta, restandone influenzati in positivo o in negativo. Anche questo potrebbe aumentare le probabilità di riuscita (sia personale, sia degli altri), poiché la generosità comporta gratitudine.

Solo l’amore per ciò che proviene da una libera scelta, presa dal lato conscio di quella persona, può essere detto buono in assoluto per quella stessa persona. Anche per questo motivo diventa fondamentale rispondere bene alla domanda su che cosa sia auspicabile per ciascuno.

Ognuno, dunque, ha un obiettivo prestabilito da compiere: quello di raggiungere il proprio obiettivo. Ma se ognuno tendesse al dominio, le possibilità di raggiungerlo allora si abbasserebbero per tutti, compreso per il soggetto che vi tende, poiché, in alcuni casi, ciò che lo muove è solo amore per qualcosa di cui è schiavo; in tutti gli altri, poiché la competizione si accompagna all’odio e dunque a un movimento di tristezza, che accompagna a sua volta una minore realizzazione, dunque un allontanamento dall’assolutezza di quell’ “1” che rappresenta la piena realizzazione di sé. È solo l’amore per ciò che si vuol fare, ciò che si è scelto come significato da dare alla nostra vita – oltre che un minor tasso di competizione per le risorse – che può condurre a una maggior pienezza d’essere per ciascuno, a un più grande è più pieno senso di realizzazione.

Puntando meno ad accaparrarsi tutto subito, ad ottenere il maggior numero di gioia hic et nunc, questa diverrebbe automaticamente più condivisa, dato che la condivisione rappresenta l’opposto della distruzione. Freud chiamava questi impulsi “Eros e Thanatos”. Chi segue l’impulso di morte/distruzione corre i cento metri piani durante una maratona: nel lungo termine è morto. Mirando, invece, alla meta, che pure sembra un risultato così lontano dal “qui ed ora”, e quindi dall’utilità immediata (rappresentata chimicamente dalla dopamina, neurotrasmettitore endogeno legato al meccanismo della ricompensa), si giunge non solo alla condivisione, ovvero a ciò che viene definito generosità, somma espressione dell’amore semi-disinteressato; bensì, si raggiunge anche la felicità personale, intesa come annullamento della volontà di ottenere qualcosa di più nelle vite alternative che si potrebbero vivere, e così della necessità di proseguire il processo di verifica delle probabilità, dal valore “0” fino al valore “1”: sarebbe completo il significato della propria vita, in tutte le versioni e forme che essa avrebbe potuto assumere e, non secondariamente, sarebbe più facile per chiunque altro ottenere la stessa cosa. Ignoranza e odio sono la prerogativa dell’impulso di morte. L’arte e la scienza hanno la funzione di portare alla luce ciò che è oscuro, l’una moralmente, l’altra cognitivamente. Empatia e ragione sono la prerogativa dell’amore per sé, per il prossimo e per il complesso dell’universo preso nella sua perfetta atemporalità, che più di uno ha preferito chiamare “Dio”. Luce e oscurità si danno battaglia dall’inizio dei tempi: l’essere contro il nulla, lo “0” contro l’ “1”, Paradiso contro Inferno, libertà  contro schiavitù, Dio contro il demonio, diavolo tentatore.


Pierfrancesco Quarta è nato il 22 Dicembre del 1995 a Fiesole, paesino di origini etrusche in provincia di Firenze, città in cui cresce e conclude gli studi classici. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università di Siena con una tesi sulla concezione esperienziale del romanzo nel pensiero di Walter Benjamin, torna nuovamente a Firenze, dove è attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche. Appassionato di filosofia, letteratura, cinema e soprattutto di musica, ha alle spalle un passato da batterista in una band emergente fiorentina.


Immagine: The Harvesters, 1565 / Pieter Bruegel il Vecchio (MET collection OA Public Domain)