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Il coinvolgimento pratico degli intellettuali nel farsi della vita politica, sociale ed economica dello Stato è una condizione imprescindibile del secondo Dopoguerra, per il ruolo altamente partecipativo svolto da questi ultimi durante la guerra, soprattutto in Italia e per il sogno utopico e altamente condiviso di ricostruire insieme dalle macerie un Paese più equo, più giusto, più solidale, ed è indice di un avvicinamento reale alle masse, di un loro più proficuo coinvolgimento. Tuttavia, se da un lato si sono verificati effettivi mutamenti nella partecipazione popolare alla politica di tutti i giorni, nell’incremento di un’autocoscienza di classe, soprattutto della classe proletaria, il “miglioramento culturale”, che pareva allora forzatamente dover passare attraverso una nuova e prolifica fase di condivisione e solidarietà umana, non c’è stato, almeno non nei termini in cui era previsto. Proprio nel momento storico in cui la cultura sembrava destinata a sconfinare in territori nuovi e fino ad allora sconosciuti, essa è andata indebolendosi. Entrando in un periodo storico votato alla tecnica e alla produzione, essa è stata marginalizzata o, ancora peggio, utilizzata come mezzo per ampliare i meccanismi di mercificazione e consumo, tanto che, come scrive Habermas, «nel vasto settore della cultura di consumo non più soltanto la distribuzione e la scelta, la veste editoriale e la presentazione delle opere, ma la loro ideazione stessa si ispira alle regole strategiche della vendita»[1]. Discorso analogo per gran parte dei prodotti editoriali e giornalistici, pensati e preconfezionati per accontentare le voglie e i gusti di un certo target di riferimento, in un meccanismo fideistico ben oliato che tralascia qualsiasi aspetto culturale o intellettuale non spendibile immediatamente sul mercato. Di conseguenza, continua Habermas:
A misura che la cultura si trasforma in merce non solo secondo la forma, ma anche secondo il contenuto, lascia cadere alcuni elementi, la cui ricezione presuppone un certo apprendistato, grazie al quale l’appropriazione “consapevole” accresce a sua volta la consapevolezza. Non già la standardizzazione come tale, ma quel particolare precondizionamento dei prodotti che conferisce loro piena fruibilità, cioè la garanzia di potere essere recepiti senza rigorose premesse e, ovviamente, senza tracce durevoli, pone la commercializzazione dei beni culturali in un rapporto inverso rispetto alla loro complessità. Il contatto con la cultura affina, mentre il consumo della cultura di massa non lascia alcuna traccia: il tipo di esperienza che ne risulta è regressivo, non cumulativo[2].
All’interno dello stesso macro-processo si inscrive dunque prima la trasformazione quasi totale del fatto culturale in industria culturale, che si avvale della tanto agognata democratizzazione del sapere e di un nuovo e più ampio bacino di utenti e potenziali acquirenti per imprimere da subito una logica di mercato, di vendibilità, di lucro e poi la cooptazione del “gruppo” intellettuale nelle strutture lavorative di produzione e creazione della stessa industria culturale, che inaugura, a causa della sua peculiarità tecnico-burocratica, la tendenza alla «spersonalizzazione della creazione, alla prevalenza dell’organizzazione razionale della produzione (tecnica, commerciale, politica) sull’invenzione, alla disintegrazione del potere culturale»[3]. In questo contesto sistematico l’autore, inteso come individualità creatrice, singolare e indipendente, scompare, «allorché la creazione tende a diventare produzione»[4]. Il sogno di una sublimazione culturale che coinvolgesse le masse in un percorso di acquisizione reale di alti valori morali, etici ed artistici non si è avverato in alcun modo. Anzi, come spiega bene Carlo Galli nell’introduzione a Dialettica dell’illuminismo, «la cultura di massa non è democratizzazione di quanto c’era di inevitabilmente elitario nelle grandi forme artistico-culturali del passato; piuttosto, l’arte e la cultura integrate nel sistema di dominio come fonti di svago e di intrattenimento si sono arrese davanti all’esistenza così come esso è»[5]. Anche la stampa, dipendente già dalla sua nascita dai grandi capitali industriali, soprattutto in Italia, agli inizi della seconda metà del XX secolo entra stabilmente in questo ciclo di produzione industriale neocapitalista, commercializzandosi sempre più a causa della forte competizione di mercato e tentando inoltre di intercettare il favore del ceto politico per tessere trame di interessi privati e imprenditoriali che nulla hanno a che fare con il servizio di informazione e mediazione intellettuale che al giornale spetterebbe compiere in maniera disinteressata. Se quindi da una parte la stampa, divenuta «istituzione di determinati membri del pubblico in quanto privati»[6], spalanca le porte «all’irruzione nella sfera pubblica di interessi privati privilegiati»[7], dall’altra muta anche il rapporto tra editore e redazione. Scrive Habermas a tal proposito:
L’attività di redazione, sotto la pressione di un’organizzazione informativa tecnicamente progredita, si era già specializzata come attività non più letteraria, ma giornalistica: la scelta del materiale diventa più importante dell’articolo di fondo; l’elaborazione e l’esame critico delle notizie, la loro revisione e presentazione diventa impellente rispetto alla formulazione di una “linea” in termini letterariamente efficaci[8].
L’industria culturale, che tutto sottende e tutto condiziona, dalla scuola alla stampa, dai nuovi media all’arte, «è modellata sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi: essa si serve del metodo di anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e di fare apparire come già esistente l’intesa che mira a creare»[9]. Ne consegue all’interno della sfera pubblica «l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà»[10]. Prosegue Marcuse: «Codesta liquidazione della cultura a due dimensioni non ha luogo mediante la negazione ed il rigetto dei “valori culturali”, bensì mediante il loro inserimento in massa nell’ordine stabilito, mediante la loro riproduzione ed esposizione su scala massiccia. Essi servono di fatto come strumenti di coesione sociale»[11]. Entro il perimetro del fenomeno sinora descritto, abbracciando più o meno forzatamente i dettami e i meccanismi interni al sistema di produzione e consumo e i suoi conseguenti standard di vita e intrattenimento, non potendo più opporvi d’altro canto alcun richiamo ad un’anacronistica “cittadella” dell’intellettualismo galleggiante tra le nuvole, sede di valori atemporali e universali, “l’intellettuale specifico” o “tecnico del sapere” è il perfetto riflesso sociologico del suo tempo. Scrive Sartre a tal proposito: «Prodotto da società dilaniate, l’intellettuale ne è testimone poiché ha interiorizzato la loro lacerazione. È dunque un prodotto storico. In questo senso nessuna società può lamentarsi dei propri intellettuali senza accusare sé stessa, poiché si trova ad avere coloro che essa stessa ha creato»[12].
[1] J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1° ed. 1962), Bari, Laterza, 2005, p. 190.
[2] Ivi, p. 191.
[3] E. Morin, L’industria culturale, Bologna, il Mulino, 1963, p. 22.
[4] Ivi, p. 27.
[5] C. Galli, Introduzione, in T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (1° ed. 1944), Torino, Einaudi, 1997, p. XVI.
[6] J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, op. cit., p. 213.
[7] Ibid.
[8] Ivi, p. 214.
[9] T. W. Adorno, Op. cit., p. 7.
[10] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (1° ed.1964), Torino, Einaudi, 1999, p. 70.
[11] Ibid.
[12] J. P. Sartre, Op. cit., p. 40.
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