Letteratura

Il monologo di Molly Bloom


Per gli altri articoli di Niccolò

L’Ulisse di Joyce ha cambiato radicalmente segno, natura e statuto al romanzo novecentesco, rivoluzionando alla radice i paradigmi di senso e significazione insiti storicamente nel concetto stesso di Letteratura, intesa come genere, istituzione, forma d’arte, massima creazione inventiva dell’uomo. Così come ci sono un prima e un dopo Cristo nella cronistoria dell’uomo, esistono un prima e un dopo Ulisse in quello della Letteratura. All’interno di questo monumento della parola e alla parola, all’apice di questa epocale esplorazione intellettuale, narrativa, ludica del linguaggio e delle sue infinite potenzialità diacroniche e al contempo atemporali, verticalmente ed orizzontalmente intese, delle sue forme più astruse e radicali, della sua eredità babelica e della sua portata conoscitiva e rivelatrice, delle sue sorprendenti qualità fonetiche sintattiche sonore, si colloca il monologo di Molly Bloom, Penelope, in cui l’arte dello sperimentalismo joyciano raggiunge picchi estremi, confezionando sessantasei pagine ininterrotte di pura fiumana prosodica, la cui freschezza e potenza lessicale ed immaginifica rimangono ancora oggi ineguagliabili.   

Così come ci sono un prima e un dopo Cristo nella cronistoria dell’uomo, esistono un prima e un dopo Ulisse in quello della Letteratura

La forza dialettica di Molly Bloom risiede innanzitutto nel suo specifico spazio enunciativo, la porzione finale di testo, che corrisponde alla porzione finale della giornata rappresentata; in tal modo le viene concessa la parola ultima, definitiva, irrefutabile, indubitabile, la chiosa incontestabile e inconfutabile. Eppure, nonostante la posizione privilegiata che Joyce le regala, Marion Molly Bloom non parla solo a suo nome, ma anche e soprattutto per e contro Leopold, per e contro Stephen, per e contro i dubliners che si sono succeduti nelle novecento pagine precedenti. Il suo è un discorso inglobante e totalizzante, senza inizio né fine, onnipotente e onnicomprensivo, vorace e insaziabile, un flusso di coscienza (o monologo interiore o meglio ancora discorso immediato [1]) che procede per accumulazioni disparate e rimandi intuitivi, per sovrapposizioni analogiche e metafore visive, dando vita a un fitto reticolo di riferimenti e referenze che ogni cosa, ogni fatto, ogni persona, presente o meno, nominata o meno nel romanzo, sembra attirare a sé, come una calamita attrattiva a cui è impossibile resistere. E Molly Bloom parla chiaro e filato e il ritmo tamburellante della prosa sconvolge per la sua cadenza accelerata e sostenuta, che si mantiene invariata lungo l’intera sezione conclusiva dell’opera.

Marion Molly Bloom non parla solo a suo nome, ma anche e soprattutto per e contro Leopold, per e contro Stephen, per e contro i dubliners che si sono succeduti nelle novecento pagine precedenti

Come una persona che, rimasta in silenzio per tutta la sera, trova finalmente l’occasione ultima per esprimersi e dire la sua, Molly-Penelope, da cantante lirica qual è, conquista magnificamente il palco, ruba la scena e la padroneggia senza fatica, godendo di ogni parola detta, di ogni suono emesso (metaforicamente parlando), conquistando rapidamente l’attenzione e la curiosità della platea dei lettori-uditori. Che voglia di dire, di nominare, di spettegolare che ha Molly Bloom, scattata come una molla frenetica nella parte decisiva e fondamentale della narrazione, l’epilogo. Come siamo lontani da Madame Bovary, dai pudori falsi e dai moralismi malcelati della campagna ottocentesca, dai sogni erotici, esotici, fatui e un po’ ingenui. Qui ci sono adesso, nella loro orgogliosa, originale e audace plasticità verbale, la carne il sesso l’esperienza reale del mondo e insieme la rivendicazione piena e prepotente di ciò che si è fatto, di ciò che si è pensato, immaginato, fantasticato, perché dire tutto vuole dire tutto, senza rimorsi, balbettii o tentennamenti di alcuna sorta. «She shows willingness to find fault and distribuite it, for unlike Bloom, she does not assume the weight of the world’s blame. Her mind moves swiftly, liltingly» [2].

Che voglia di dire, di nominare, di spettegolare che ha Molly Bloom, scattata come una molla frenetica nella parte decisiva e fondamentale della narrazione, l’epilogo

Il pensiero di Molly è parola scritta dispiegata nel tempo ad elastico, torna indietro per poi catapultarsi in avanti con la stessa forza e la medesima foga. Non c’è differenza o stratificazione temporale, è sempre presente nelle parole di Molly Bloom, in un sistema cronologico che ricorda quello tripartito di Sant’Agostino: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Leopold ha parlato talmente poco di lei nella sua girandola quotidiana di incontri, discorsi, peccati, condanne, difese e assoluzioni e questa è ora la sua rivincita, morale, estetica, letteraria: essere la protagonista del segmento più avanguardistico dell’intero (ultra)romanzo. Ogni riflessione malevola di Leopold, ogni suo ammiccamento, ogni flirt, le prostitute, le erezioni reali o sognate, le perversioni, tutto è capovolto e additato, messo nero su bianco dalla dialettica castigante e feroce di Molly, che con tanta lucida malevolenza lo incastra e lo punisce e in alcuni passaggi lo elogia e lo valorizza perfino, cedendo ad una pietas a metà tra autocompassione e affetto reale. Molly si diverte a mettere alla berlina le depravazioni più disgustose di suo marito e la sua impotenza virile più volte palesata, connaturata ad una mascolinità ondivaga, inchiodandolo alla sua reale natura ferina e al contempo femminea, potenzialmente androgina, scavalcando a piè pari e con ostile nonchalance ogni filosofismo, congettura, teoria estetica, nobiltà d’animo. Allo stesso tempo però, seguendo un’orbita d’effetto simile, finisce col denunciare apertamente sé stessa e la sua brama fedifraga, la sua immoralità variamente applicata, la sua lascivia lussureggiante, senza alcun timore o diniego, giustificazione o richiesta di perdono. Eppure, nonostante l’imponente mole di vicendevole avversione ed astio, concretizzatasi in innumerevoli tradimenti, ricatti, fughe, offese, ciò che sorprende maggiormente, come sottolinea Stephany Lyman, «is Molly’s persistent and inexhaustible love for Bloom» [3]. Paradossalmente, anzi, spiega Suzette Henke: «Molly Bloom’s adultery, like Leopold’s onanism, could have an affermative, liberating, and redemptive function in the novel. Intercourse with a virile lover frees Molly from erotic frustration and conjugal resentment» [4].

Non c’è differenza o stratificazione temporale, è sempre presente nelle parole di Molly Bloom, in un sistema cronologico che ricorda quello tripartito di Sant’Agostino: presente del passato, presente del presente, presente del futuro

Dentro il perimetro d’un dualismo al contempo esistenziale e narrativo, che la vede prima semplice oggetto-comparsa-pensiero estemporaneo e infine soggetto conclusivo e potente (potente perché conclusivo?) dell’universo romanzesco joyciano, Molly afferma linguisticamente non solo e non tanto la sua presenza narrativa, il suo esserci nell’opera, ma anche e soprattutto la sua identità, che, seppur finzionale, è pur sempre un’identità, una dichiarazione d’intenti, una richiesta d’essere riconosciuti, d’essere ascoltati. Nelle sue parole e nelle sue invettive si esprime con urgenza l’ansia di comunicare, di dire la fierezza e la fatica d’essere donna moglie madre amante adultera tradita, d’essere bella desiderata odiata invidiata compatita, di giocare ed essere giocata, il desiderio sessuale irrefrenabile ardente passionale corporale materiale, che non è altro che una parte stessa della vita, forse la più importante. Il lessico amoroso è interamente veicolato attraverso le modalità, i regolamenti, i codici, detti e non detti, impliciti ed espliciti, di un erotismo che oggi non esiste più, almeno nelle forme allora canonizzate e perpetuate in quelle fenomenologie d’essenze, assenze e apparenze.

Molly afferma linguisticamente non solo e non tanto la sua presenza narrativa, il suo esserci nell’opera, ma anche e soprattutto la sua identità, che, seppur finzionale, è pur sempre un’identità, una dichiarazione d’intenti, una richiesta d’essere riconosciuti, d’essere ascoltati

In questo catalogo sterminato, eppure verbalmente condensato (cosa sono sessantasei pagine in confronto al potenziale infinito libro dell’esistenza?), di giudizi critiche valutazioni considerazioni interpretazioni maledizioni ricordi imprecazioni sensazioni oscenità non c’è spazio per la punteggiatura né per il narratore, il flusso indomabile di uomini donne sesso Leopold soldi frustrazione potere Stephen fede noia religione Boylan amore Gibilterra giovinezza infanzia dolore vince su ogni canone oratorio prestabilito, regolamentazione sintattica, bello scrivere, compromesso narrativo, licenza poetica, correttezza linguistica. Non c’è argine che tenga alla sua smania enunciativa, al protagonismo irrefrenabile del suo soliloquio. Questo accade perché il monologo di Molly Bloom, a tratti inconsistente, ironico, futile, nervoso, confuso, spudorato, volgare, preoccupato, sentimentale, ambivalente, è non solo la proiezione verbalmente plastica di una Dublino al quadrato, vissuta immaginata pensata e riferita, ma anche e soprattutto un sì alla vita e alla natura umana, un’accettazione quasi panica e incontestabile di tutto quello che la vita rappresenta e porta in dote.


[1] G. Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1986, p. 221: «Cioè la definizione più giusta di quanto è stato goffamente battezzato “monologo interiore”, ma che sarebbe meglio chiamare discorso immediato, dato che l’essenziale, come non è sfuggito a Joyce, non è tanto il fatto che sia interiore, ma che sia immediatamente emancipato da qualsiasi tutela narrativa, che cioè esso occupi, fin dall’inizio dell’azione, il primo piano sulla “scena”».

[2] P. Schwaber, Molly Bloom and Literary Character, in The Massachusetts Review, Vol. 24, No. 4, Dicembre 1983, pp. 770-771. 

[3] S. Lyman, Revision and Intention in Joyce’s “Penelope”, in James Joyce Quarterly, Vol. 20. No. 2, University of Tulsa, Dicembre 1983, p. 196.

[4] S. A. Henke, Joyce’s Bloom: Beyon Sexual Possessiveness, in American Imago, Vol. 32, No. 4, The Johns Hopkins University Press, Dicembre 1975, p. 331.


Immagine: James Joyce, 1935 / Jacques-Émile Blanche (National Portrait Gallery, Londra)
(Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jacques-Émile_Blanche_-_James_Joyce.jpg)