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Molteplicità continua è sinonimo di apertura?
Riprendiamo dunque dalla durata. La critica cui viene sottoposto questo concetto da parte dei francofortesi, in particolare dallo Horkheimer di Zu bergsons Metaphysik der Zeit (apparso nel terzo volume della «Zeitschrift für Sozialforschung», del 1934), è che – nonostante la portata epocale della distinzione tra tempo esteriore (o “cronologico”, misurato dai secondi del cronometro e relativizzato dalla fisica di Einstein) e tempo interiore (o “cairologico”, percepito appunto come durata e conservato nella memoria), capace di incidere un segno indelebile su tutta la filosofia del ‘900 inserendo al centro del dibattito filosofico la riflessione sul tempo, e nonostante il merito non secondario di aver spinto la scienza ad interrogarsi sul proprio metodo – Bergson si limiti ad utilizzare tutto questo nuovo campo di conoscenze al fine di illustrare la sua concezione di «evoluzione creatrice», ma senza compiere l’importante passo di storicizzare davvero la sua indagine. Questo delitto nei confronti della coscienza marxista, e prima ancora hegeliana (alfieri della storicizzazione del pensiero occidentale), viene dunque interpretato dalla maggioranza dei filosofi tedeschi, da un lato, come un riavvicinamento e una subordinazione alla vecchia metafisica e, dall’altro, come una tendenza presente in tutte quante le manifestazioni di una società industrializzata come quella contemporanea.
La critica cui viene sottoposto questo concetto da parte dei francofortesi, in particolare da Horkheimer, è che Bergson si limiti ad utilizzare tutto questo nuovo campo di conoscenze al fine di illustrare la sua concezione di «evoluzione creatrice», ma senza compiere l’importante passo di storicizzare davvero la sua indagine
Il pensiero di Bergson viene letto, in breve, come un prodotto e – al contempo – una reazione a questa società industriale, in quanto da un lato risponde alle (legittime) esigenze di spiritualizzazione di una collettività fin troppo radicata nella cultura positivista della sua epoca, ma dall’altro, proprio in quanto tralascia l’importanza della storicizzazione della filosofia, frutto e segno di una cittadinanza sempre più asservita alle brutali condizioni del lavoro in fabbrica. Ma la critica di Horkheimer alla contraddittorietà di una filosofia che compie lo sforzo di donare la giusta importanza al tempo, ma facendone una categoria metafisica senza riconoscere rilevanza alla storia e alle relazioni che avvengono in essa, passa presto il testimone alle valutazioni di Walter Benjamin:
[…] Bergson, nella sua concezione della durata, si è estraniato assai di più [Rispetto a Baudelaire] dalla storia. «Il metafisico Bergson sopprime la morte». Che, nella durée bergsoniana venga meno la morte, è ciò che la separa dall’ ordine storico (come anche da un ordine pre-storico). Il concetto bergsoniano dell’action ha lo stesso carattere. Il «sano buon senso», in cui eccelle l’«uomo pratico», l’ha tenuto a battesimo. La durée, da cui è stata soppressa la morte, ha la cattiva infinità di un arabesco. Essa esclude di poter accogliere la tradizione. È il prototipo di un’esperienza vissuta che si pavoneggia nelle vesti dell’esperienza.[1]
Per comprenderne il contenuto, però, occorre analizzare questa citazione punto per punto. Per prima cosa, abbiamo già visto che l’uscita dalla storia accomuna Bergson alle condizioni generali della civiltà contemporanea occidentale. Questo, secondo il filosofo berlinese, avviene attraverso un fenomeno che investe l’esperienza individuale, spezzandone la connessione che in passato essa intratteneva con l’esperienza collettiva (concetto estremamente attuale, che avrà enorme eco soprattutto nell’antropologia filosofica a cavallo fra il ‘900 e l’inizio del nuovo millennio, inserendosi a pieno titolo fra i precursori del concetto di post-storia, ovvero di fuoriuscita dell’esperienza dalla sua dimensione necessariamente storica, non più percepita come tale). In questo processo è coinvolta la memoria, intesa da Benjamin proprio come quello strumento che serviva a collegare il passato collettivo al passato individuale. L’esperienza soggettiva si costruisce, infatti, attraverso una memoria che è molto più che un semplice contenitore di ricordi, ma che è ciò che, accumulandosi, permette di interpretare i simboli e le allegorie della società di cui si fa parte, consentendo così alla soggettività di costruirsi come tale, come “capacità di memoria”. Sotto un certo aspetto ci muoviamo ancora in un panorama bergsoniano, dunque, quantomeno per l’importanza che viene riconosciuta alla facoltà della memoria. Questo non è un caso. Benjamin si inserisce, infatti, nella ripresa del concetto di memoria bergsoniana effettuata in letteratura da Marcel Proust. Le due visioni, però non combaciano – già nell’utilizzo dei vocaboli scelti per designarle – e vengono dunque contrapposte: da un lato abbiamo la «memoria volontaria» di Materia e memoria, dall’altra la «memoria involontaria» della Recherche. Quest’ultima, infatti, alla luce di tale dualismo, si configura come una memoria che non si dà a piena disposizione, lì, pronta per essere richiamata alla coscienza grazie a un atto volontario dell’intelligenza. Si nasconde, piuttosto, in paesaggi, oggetti, colori, gesti e – soprattutto – profumi (come quello della celebre madeleine), che hanno il potere di richiamare alla mente ricordi di estrema vividezza, ritenuti inaccessibili alla rammemorazione volontaria, che ce li presentava invece pallidi e scarni (come quelli di Combray o di Venezia citati Proust). Alla base di questa interpretazione c’è anche la teoria psicanalitica freudiana, della quale viene accettato il presupposto fondamentale che la coscienza sorga al posto di una «traccia mnestica», che, trasformandosi dunque in ricordo consapevole, viene esclusa dal sistema dell’inconscio e portata a galla dalla coscienza che ha il compito di «parare gli choc», ovvero di proteggere l’individuo da un’acquisizione traumatica degli stimoli (diretti o anche “mnestici”) all’interno del nuovo sistema. Più la coscienza è allenata a svolgere questo compito, meglio le riesce; e più le riesce, più le viene automatico farlo. Questo è il principio che guida l’Erlebnis, l’esperienza vissuta, tipico oggetto d’interesse della filosofia della vita da Dilthey fino a – e oltre – Bergson, suo maggior esponente.
L’esperienza soggettiva si costruisce, infatti, attraverso una memoria che è molto più che un semplice contenitore di ricordi, ma che è ciò che, accumulandosi, permette di interpretare i simboli e le allegorie della società di cui si fa parte
La durata, infatti, si basa sulla «memoria pura» volontaria e, dunque, su ricordi consapevoli. Ma perché questo non permette di collegare il passato individuale alla memoria storica? La risposta di Benjamin è che, così come i due sistemi psicologici si escludono a vicenda per uno stesso ricordo, la Erlebnis esclude la Erfahrung e dunque quel diverso tipo di esperienza che permette di collegare la memoria dell’individuo a quella della collettività (Benjamin fa l’esempio delle ricorrenze e delle festività che scandiscono il calendario) e che ormai appartiene a una modalità del passato. Questo isolamento individuale, questa incapacità del singolo di collegare l’esperienza interna ai movimenti che si verificano al suo esterno e che entrano a far parte della memoria storica di una comunità, è l’elemento di critica mosso da Benjamin alla società contemporanea.
La durata, infatti, si basa sulla «memoria pura» volontaria e, dunque, su ricordi consapevoli. Ma perché questo non permette di collegare il passato individuale alla memoria storica?
La perdita della tradizione si inscrive, così, in un processo più ampio di generale perdita dell’esperienza, della quale l’uomo contemporaneo si sente quasi derubato, e che corrisponde – in ultima analisi – a un declino della comunicabilità, a un isolamento dell’individuo rispetto agli interessi della società che lo circonda (così come viene letto nel principio dell’individualismo delle scienze sociali e ripreso da Karl Popper). La comunicazione, per Benjamin, avviene infatti, fondamentalmente, attraverso la capacità di scambiare esperienze. Nel saggio su Leskov, Il narratore (1936), si vede come questa capacità, un tempo considerata inalienabile, sta oggi venendo meno, sempre a seguito del declino dell’esperienza in favore dell’esperienza vissuta. Lo stesso risultato si ottiene in letteratura col passaggio dalla narrazione al romanzo, che però accoglie ancora qualcosa di comunicabile. Infatti, all’interno del romanzo, si assiste alla morte del protagonista (quanto meno in senso lato, ovvero quando la sua vita smette di essere utile al lettore poiché l’azione principale si è conclusa). Questa sua morte è ciò che dà veramente senso alla sua vita. La conclusione, la fine, il limite ultimo, permette di compiere l’assunzione di significato da parte di chi assiste; significato che si sviluppa come un processo tra un punto A (il significante) e un punto B (il significato), dove in mezzo sta il simbolo che li trascende e li collega e che necessita di un interprete che colleghi i due estremi. Questo interprete è – in questo caso – il romanziere, che «accoglie l’eredità del morente».
[1] W. Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire (1939), in Aura e choc, Andrea Pinotti e Antonio Somaini (a cura di), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2012, p. 194.
Bibliografia
W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov (1936), in Id., Opere complete, VI. Scritti 1934-1937, Torino, Einaudi, 2004.
W. Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire (1939), in Aura e choc, Andrea Pinotti e Antonio Somaini (a cura di), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2012.
H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.
Pierfrancesco Quarta è nato il 22 Dicembre del 1995 a Fiesole, paesino di origini etrusche in provincia di Firenze, città in cui cresce e conclude gli studi classici. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università di Siena con una tesi sulla concezione esperienziale del romanzo nel pensiero di Walter Benjamin, torna nuovamente a Firenze, dove è attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche. Appassionato di filosofia, letteratura, cinema e soprattutto di musica, ha alle spalle un passato da batterista in una band emergente fiorentina.