Filosofia

Sul concetto di determinazione (parte I)


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Molteplicità continua è sinonimo di apertura?

«Il metafisico Bergson sopprime la morte». Così si esprime lapidariamente Max Horkheimer sul concetto di vita come flusso continuo e similmente scriverà Walter Benjamin all’interno del suo saggio su Baudelaire del 1939. Ma a che cosa si deve tutta questa asprezza? Dal suo punto di vista, Henri Bergson sta parlando della continuità del reale attraverso il tempo e dunque vissuta dalla materia e dalla durata individuali, in opposizione alla fissità, oggetto privilegiato dell’intelligenza. Ma la domanda che dovrebbe sorgere spontanea da una prospettiva come quella benjaminiana è pressappoco questa: come fa un individuo ad essere tale se la sua durata è colta come continuità senza fine? Lo stesso Spinoza, di cui pure il conatus viene accostato allo slancio vitale, obietterebbe che opporre un infinito ad un altro infinito è una contraddizione in termini: come fanno due sostanze senza un limite a coesistere come sostanze libere, aperte e senza una fine? Certo, per Bergson la materia è una sola, anche se in movimento per effetto del tempo, dunque queste critiche possono sembrare quantomeno affrettate. Per lui l’intelligenza è incapace di comprendere la vita, poiché si serve di forme statiche e pretende che queste si diano prima – sotto forma di possibilità – degli esiti effettivi del reale, mentre la vita è creazione continua, flusso in movimento i cui esiti non sono mai del tutto prevedibili, insomma un eterno fluire di novità che può creare gli strumenti per concepirsi adeguatamente e liberamente (cioè senza far ricorso ad automatismi) dall’interno. Ma si sa che dove c’è razionalismo – corrente di cui Spinoza fa parte – si fa, invece, grande affidamento sulla forza dell’intelletto: dunque, siamo di fronte all’ennesimo scontro di prospettive metafisiche incompatibili o c’è qualcosa di più, al fondo di questa incompatibilità?

Henri Bergson sta parlando della continuità del reale attraverso il tempo e dunque vissuta dalla materia e dalla durata individuali, in opposizione alla fissità, oggetto privilegiato dell’intelligenza

Al di là del fatto che, sì, per Bergson intelligenza e vita (o istinto, o – nell’uomo – intuizione) sono per natura due sistemi reciprocamente incommensurabili, possiamo già da questo notare la somiglianza tra le famiglie di “intelligenza vs vita” e quelle di “pensiero vs estensione”. Spinoza metteva già in guardia i cartesiani dal considerare pensiero ed estensione come due sostanze separate, poiché la sostanza deve essere un’essenza unica in sé ed essere concepita solo per sé, ovvero senza l’ausilio di nessun altro concetto; è così che può concludere che pensiero ed estensione sono due attributi di una sola e medesima sostanza. Possiamo dire che, quasi tre secoli dopo, Bergson fa sua questa interpretazione delle sostanze cartesiane, ma forse con una riserva che non traspare del tutto esplicitamente (in quanto non c’è quasi mai riferimento diretto all’opera di Spinoza, se si escludono i punti dove le sue tesi vengono rifiutate, accanto a quelle di Leibniz, poiché troppo vicine alla “vecchia metafisica”). La coscienza sarebbe infatti quell’essenza primaria da cui le altre derivano e che secondo Bergson cerca di farsi strada nel mondo prima attraverso i due grandi regni, quello vegetale e quello animale; poi – che è l’esito più fecondo – attraverso due tendenze di diversa natura (come i due attributi spinoziani: ben lontani dal possedere una semplice differenza di grado), ovvero: l’intelligenza e l’istinto, appunto. Prima con quest’ultimo, cioè negli animali sprovvisti di ragione. Poi con la prima, con un ulteriore salto di qualità, nell’uomo.

La coscienza sarebbe infatti quell’essenza primaria da cui le altre derivano e che secondo Bergson cerca di farsi strada nel mondo prima attraverso i due grandi regni, quello vegetale e quello animale

Dunque, l’uomo è per Bergson l’esito ricercato da una Coscienza (generale e non ancora individuata) che ha cercato di farsi strada nella vita dal momento stesso in cui si è erta sull’inorganico durante lo stesso atto di nascita della prima cellula vitale al mondo. Ma egli – l’uomo – viene considerato l’apice dell’evoluzione non tanto per il fatto che possiede l’intelligenza, poiché essa è legata ancora una volta a un’attività sull’inorganico (questo per il concetto di “fabbricazione”, ovvero di manipolazione della materia a partire da una forma preesistente, il tutto a fini di utilizzo pratico e di dominio); quanto perché, grazie all’intelligenza, il suo istinto (prima – cioè a livello nell’animale – ancora inconsapevole) può tramutarsi in intuizione. Intuizione, che è un po’ la forma di coscienza favorita da Bergson. D’altra parte, se ripercorriamo il cammino fatto fin ora, è sempre stato questo aspetto che ha ricevuto maggior favore da parte del filosofo francese. È la vita nel suo fluire che egli indaga, non l’essere statico (come traspare dalle sue personalissime critiche all’Eleatismo, e a Zenone in primis), né le forme nella loro fissità. E proprio l’istinto, sotto la veste di intuizione, è lo strumento cui viene affidato il compito di far luce sulla vita, potendo agire liberamente dall’interno della materia in movimento secondo l’ordine del tempo, così come l’intelligenza è lo strumento adatto a interagire con le forme immobili nello spazio.

L’uomo è per Bergson l’esito ricercato da una Coscienza (generale e non ancora individuata) che ha cercato di farsi strada nella vita dal momento stesso in cui si è erta sull’inorganico durante lo stesso atto di nascita della prima cellula vitale al mondo

Quindi, se da un lato possiamo leggere tutta la disputa come uno scontro di prospettive incommensurabili, per l’evidente sbilanciamento di Spinoza verso la ragione e di Bergson verso la vita istintuale, dall’altro abbiamo un problema di imparzialità dovuto forse a uno slancio troppo travolgente. E ovviamente “slancio” non è parola scelta a caso. Lo slancio intrapreso dalla vita come evoluzione creatrice ha a che fare col tempo. Abbiamo già accennato al fatto che lo scorrere del tempo è la peculiarità della materia vivente. L’intelligenza blocca questa materia, spazializzandola, ovvero dando ai vari elementi particolari (che la scienza e il senso comune isolano dalla continuità della materia inorganica, ponendovisi dall’esterno) una disposizione che le permette di vedere tutto in un colpo solo, come se si desse insieme, nell’eternità senza tempo della mente umana, sotto questo aspetto simile a quella divina, anche se infinitamente meno potente. L’istinto animale, al contrario, essendo specializzato su uno e un solo compito, legato a uno e un solo aspetto del vivente, permette di penetrare all’interno della cosa – senza dunque oggettificarla – e perciò di percepirne il movimento nella sua temporalità. Sarebbe, quindi, questo particolare atteggiamento – che nell’uomo si tramuta in intuizione – a consentire al vivente di temporalizzare l’essere e di percepirlo come durata, ovvero come memoria di ogni evoluzione precedente, proseguendo all’indietro fino addirittura prima della nascita del singolo vivente in grado di percepirla. Questa memoria non conserva cambiamenti di stato, poiché la stessa idea di stato successivo è, secondo Bergson, un modo dell’intelligenza di spazializzare il tempo, frammentandolo in istanti consecutivi e dunque introducendo una discontinuità illusoria in un tempo che è in realtà flusso ininterrotto che muta per sua stessa natura, come una palla di neve che, rotolando, si accresce indefinitamente (cfr. Cap. 1, pp. 8-11). Una memoria di questo tipo diventerebbe l’unica possibile per non incorrere nell’eterno presente dell’intelligenza. Il suo modo di procedere è quello della ritensione del flusso evolutivo, cioè del trattenimento delle tendenze che si sono conservate fino a quel momento a partire dall’istante stesso in cui è nata la vita, e – forse – lo stesso universo, che la ospita e di cui essa fa indissolubilmente parte.

L’istinto animale, al contrario, essendo specializzato su uno e un solo compito, legato a uno e un solo aspetto del vivente, permette di penetrare all’interno della cosa – senza dunque oggettificarla – e perciò di percepirne il movimento nella sua temporalità

Perciò, se tutto si conserva sotto forma di tendenza dal passato più remoto fino al presente vissuto nella sua attualità creatrice di forme nuove, esso seguiterà a preservarsi anche nel futuro; ma ciò senza che intervenga la rigorosa prevedibilità della geometria (frutto maturo dell’intelletto); sarà, invece, compatibile con la protensione da parte della durata verso un futuro che andrà oltre la morte dell’individuo, oltre la morte della specie, in una corsa all’infinito, eterno arrivo del nuovo, senza via di fuga. Questo è lo slancio vitale, che solo l’istinto può comprendere, poiché l’intelligenza, nata per fabbricare, tratta il suo oggetto – le forme – esattamente come tratta la materia inerte, anche il più fluido, come il vivente, sottoposto al flusso vitale e soggetto a sua volta del proprio pensiero, rendendosi, così, inadeguata alla naturale comprensione della vita, ingabbiando quest’ultima in una forma fissa, come un «solido rigorosamente delimitato». Ma, in questo caso, l’errore che la filosofia successiva a Bergson ha messo in luce non è tanto quello di delimitare ogni cosa come un oggetto discontinuo, immobile, e quindi malleabile e fabbricabile a piacimento. Qui credo che l’errore stia, più che altro, nel non riuscire a vedere come delimitato anche il soggetto (ovvero se stessi), oltre che l’oggetto; questo, con la conseguenza di credersi privi di limiti e di prendersi ogni libertà anche quando si ha a che fare con l’organico (altri soggetti), poiché vengono percepiti appunto come oggetti inerti, su cui poter prevaricare: se ogni cosa ha un limite anche io dovrò trovare il mio. Solo così – ancor più che affidandomi solamente all’istinto – potrò imparare a comprendere (e rispettare) l’esistenza di altri soggetti oltre a me.


BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

BENJAMIN W., Su alcuni motivi in Baudelaire (1939), in Aura e choc, Andrea Pinotti e Antonio Somaini (a cura di), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2012.

BERGSON H., L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002.

VINCI P., Walter Benjamin e la memoria, in Quaderni di cultura junghiana, Anno 2, Num. 2, 2013, http://www.cipajung.it/q2/05_CIPA_QDCJ_2_2013.pdf.


Pierfrancesco Quarta è nato il 22 Dicembre del 1995 a Fiesole, paesino di origini etrusche in provincia di Firenze, città in cui cresce e conclude gli studi classici. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università di Siena con una tesi sulla concezione esperienziale del romanzo nel pensiero di Walter Benjamin, torna nuovamente a Firenze, dove è attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche. Appassionato di filosofia, letteratura, cinema e soprattutto di musica, ha alle spalle un passato da batterista in una band emergente fiorentina.