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Valerié quella mattina si alzò di umore nero. A dire il vero non aveva granché chiuso occhio, probabilmente si era davvero appisolata una mezz’ora tra le quattro e mezza e le cinque, il resto era stato un dormiveglia misto ad emicrania. Ma come era potuto accadere? Come aveva fatto quella donna sconosciuta ad arrivare a tanto? Come aveva potuto Théo concederle di condividere con lui l’appartamento, quell’appartamento tra Rue d’Anjou e Boulevard Haussmann in cui tante di quelle volte Valerié gli aveva proposto di trasferirsi, per consacrarlo così a nido del loro amore, decidendosi finalmente a condividere ogni attimo, anche il più fuggevole, di vita insieme? Per dieci anni lo aveva implorato, ed ecco che un’altra donna riusciva ad ottenere in un mese quello che lei sognava da tempo immemore. In preda ad uno stato confusionale, cercò di darsi una lavata veloce, poi si vestì. Pensò di essere pessima, quasi le venne da ridere. Si era ridicolizzata. Che bisogno c’era di saperlo? Perché lui era stato tanto crudele nel dirglielo? Probabilmente per raccomandarle di non intromettersi ancora una volta. Scese le scale con indosso un paio di occhiali scuri. Uscì dal portone del suo palazzo. Certo, in modo più o meno serio aveva più volte rendicontato il suo vissuto, ma mai come adesso aveva palpato il fallimento. Che tipo di donna era? Chi era stata? Ma soprattutto, che cosa sarebbe diventata? Durante tutte le liti che si erano fatte in passato mai gliel’aveva data vinta, anche quando lui le ribadiva quanto fosse diventata meccanica e oramai superficiale. Priva di slanci, sterile, questo era. O almeno così si sentiva. Sicuramente Théo, oltre a sventagliarle come argomentazioni per meglio sapersi destreggiare nei diverbi quotidiani, ne aveva fatto, di tutte queste imprecazioni, una convinzione. Fece pochi passi lungo Rue de la Victoire ed ebbe la sensazione di essere preda di un attacco di panico. Si fermò al primo caffè incontrato per strada, entrò ansimando e ordinò un bicchiere d’acqua. Si sedette in uno dei tanti tavolini e pensò all’infarto. Con buona dose di meraviglia riuscì dopo qualche minuto a calmarsi, quindi si diresse verso il bancone. Si ricordò di essere a stomaco vuoto e pensò di ordinare qualcosa da buttar giù, credendo di non poter affrontare in quello stato una giornata di ufficio. Aveva appena poggiato i gomiti sul bancone quando la sua attenzione fu attirata da una voce insistente ed eccitata. Qualcuno dialogava alle sue spalle. Colse un leggero entusiasmo nella conversazione di due giovani adulti. Trovò che tutti gli esseri umani fossero marchiati dal principio e che fosse inutile qualsiasi altra congettura intorno: qualcuno nasceva con la pelle in cellule di ottimismo, ad altri era assegnata la melanconia. Maxime e Marianne parlavano dell’università. Maxime aveva visto entrare Marianne al caffè e l’aveva preso come un segno, si era deciso ad implorarla affinché rimanesse a condividere con lui la colazione e non volasse via per Parigi dopo avere bevuto sbrigativamente il solito cappuccio. Marianne, che pur fremeva d’iniziare presto la sua giornata di studio, accettò controvoglia. A lei Maxime non ispirava particolare simpatia; si erano conosciuti al primo anno di corso e da quel momento si erano scambiati qualche chiacchiera ogni tanto. Si pentì quasi subito di aver innescato quella conversazione. Lui decantava sé e il suo metodo, le parlò dei suoi programmi e del suo “nulla lasciato al caso”, le illustrò cosa aveva in serbo per l’avvenire, i progetti illustri e coraggiosi. Marianne tirò un lungo sospiro e capì che era il caso di congedarsi nel modo più cordiale possibile. Si accorse che l’ostentazione di Maxime le stava provocando un sordo turbamento. Non tentennò nel mostrarsi spudorata e sfrecciò via fino alla fermata degli autobus. Arrivò il vecchio autobus 96 direzione Place de Clichy. C’erano sei fermate prima di Bibliothèque-musée de l’Opéra. Salì e cercò un posto in cui sedere. Era stata ingiustamente travolta da una tristezza che ora era difficile scrollarsi di dosso. Non era quello che aveva in mente per il suo venerdì mattina. Si mise a scrutare i passeggeri e cercò d’immaginarsi lo stato d’animo di ognuno. Giunse alla conclusione che il vecchio sulla sinistra col bastone tremolante e il capello sbilenco avrebbe potuto sentirsi anche più solo e la signora accanto al conducente, truccatissima e affaticata da sacchetti pieni di arance, anche più triste, ma nessuno l’avrebbe superata in quanto a smarrimento e irrequietezza. Guardò dal finestrino e ogni angolo di Parigi le sembrava adatto per piangere. Arrivò poi la sua fermata. Scese ed entrò attraverso il foyer principale del teatro dell’opera. Prese posto nell’ala A, al secondo piano. Prima di cominciare, sistemò libri e cancellaria sul banco, accese la luce, quindi si diresse verso la toilette. Si deterse il viso e si asciugò. Danzatori e ballerine alle pareti e un centinaio di spartiti musicali le fecero da passatoia. Tornò alla sua postazione. Aprì il libro. Sperò di invecchiare in fretta e di potersi finalmente comportare liberamente, come se ogni azione non potesse più alterare un destino già compiuto. Verso pomeriggio guardò davanti a sé. Recuperò tutti i cocci della sua radiosità. Nathan aveva ventidue anni e studiava ingegneria. Quel giorno cercava di districarsi a fatica tra Fisica Generale I e Meccanica Razionale. Nella sua testa, già dal tragitto in metropolitana e per tutte le prime ore della giornata suonava solo Blue Train di John Coltrane. Il motivetto tornava insistente ogni cinque, sei righe. Involontariamente aveva cominciato ad oscillare il capo e ad accennare un piccolo verso con la bocca, il piede batteva il tempo. Non durò molto, si accorse di stare richiamando l’attenzione. Quell’aula era un ambiente perfetto per il jazz. Vide una ragazza coi capelli corti e una sciarpa blu dinanzi a sé sulla sinistra. Pensò che lo guardasse, ad un tratto credette anche che gli avesse rivolto una mezza luna di sorriso. Nathan, per quanto lusingato, si ritrasse. Abbassò gli occhi sui libri e non osò rialzare il capo, anche se quella fu l’unica cosa a cui pensò per il resto del tempo. Quando ci provò, lei s’era ovviamente dileguata. L’orologio segnava le sette. Decise di sloggiare. Quella sera avrebbe declinato gli inviti di tutti, amici e conoscenti, coinquilini sporchi e ragazze ciniche. Il solito scenario, una discoteca piena di zombie in una Parigi sporca e costosa non lo attraeva per niente. Uscì e si diresse verso Chaussée d’Antin. Casa sua distava quattro fermate, ma senza una birra si sarebbe sentito uno schifo. La metro proseguì oltre. Scese a Pigalle e si fiondò dentro al primo Monoprix disseminato lungo la strada. Fettine di formaggio fuso, hamburger, maionese, due birre, pane. Si mise in fila per la cassa. Cinque persone davanti a lui. Avrebbe voluto prendere su di sé il tempo d’attesa degli altri. La gente voleva accorciare gli unici momenti che lui avrebbe dilatato. Pensò che tutta la vita non fosse altro che un gran luogo comune. Si mise a guardare la signora davanti a lui. Capelli rossi, trench beige, décolleté. Sul banco, in attesa dell’antitaccheggio, vide una bottiglia di vino rosso certamente pregiata e poi un limone, asparagi, crème fraîche, salmone, pepe, aneto fresco, una candela verde. Si chiese quando sarebbe giunta l’ora anche per lui, quando avrebbe cucinato per qualcuno con tanto zelo e delicatezza. Probabilmente mai. Al massimo avrebbe invitato qualcuna a cenare fuori senza esserne davvero interessato. Camille aveva trascorso una giornata impegnativa. Quella mattina aveva discusso un’udienza a Porte de Saint-Ouen. Poi era tornata al suo studio legale. Ora, mentre sbrigava le ultime commissioni, cominciava a sentire tutta la stanchezza di un’intera giornata passata sulla punta dei piedi. Uscì dal supermarket e si accese una sigaretta. Parigi era blu e fresca e Aprile la rendeva amabile. Non la stagione invernale né l’estate valgono la pena, ma ciò che c’è in mezzo. Camminò lungo Rue de Maubeuge sorridendo. Sarebbe passata da casa sua a prendere gli ultimi oggetti personali prima di raggiungerlo.
Claudia Costanzo è nata nel Luglio del 1995 a Palermo. Laureanda in Giurisprudenza all’Università di Siena, dà una scorsa ai giornali durante il tragitto Toscana-Sicilia ed è un’appassionata del grande schermo. Ha una predilezione speciale per Bernardo Bertolucci.
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