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Sono passati quarantacinque anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, quattro decenni e mezzo da quella tragica notte del 1975 in cui fu massacrato all’idroscalo di Ostia in circostanze ancora non del tutto chiare e nel pieno della sua produzione artistica, pronto com’era a presentare al pubblico il proprio riadattamento cinematografico delle “120 giornate di Sodoma” del marchese de Sade e con un romanzo in cantiere, “Petrolio”, che pensava lo avrebbe impegnato per il resto della sua vita. Nonostante siano le opere più controverse, ambigue, eretiche, dissidenti e narcisistiche, benché spesso incomplete o solo abbozzate, quelle che si collocano negli anni Settanta restituiscono l’immagine più cristallina della personalità e del pensiero pasoliniano e sono, soprattutto in questi tempi tumultuosi e magmatici, le più attuali e illuminanti. Non poteva essere altrimenti, d’altronde, poiché figlie di quell’epoca transitoria che conteneva contemporaneamente in sé gli effetti e le controindicazioni del miracolo economico e della crisi petrolifera, dell’industrializzazione delle campagne e del terrorismo nero, del linguaggio televisivo omologante e della conquista della Luna, delle contestazioni studentesche e del compromesso storico tra democristiani e comunisti: in sintesi, gli anni della “mutazione antropologica” che ha tanto tormentato l’ultimo Pasolini.
Nonostante siano le opere più controverse, ambigue, eretiche, dissidenti e narcisistiche, benché spesso incomplete o solo abbozzate, quelle che si collocano negli anni Settanta restituiscono l’immagine più cristallina della personalità e del pensiero pasoliniano e sono, soprattutto in questi tempi tumultuosi e magmatici, le più attuali e illuminanti
Negli “Scritti Corsari” e nelle “Lettere Luterane” dettagliatamente, in “Petrolio” e in “Empirismo Eretico” in maniera più generale, l’autore bolognese rimarca in modo ossessivo come sia in atto una violenta trasformazione dei costumi della popolazione italiana, la quale va di pari passo all’evoluzione politica ed economica di quegli anni, e che condurrà inevitabilmente a un periodo di forte instabilità perché ne si uscirà incapaci di orientarsi nella nuova realtà. Non a caso Pasolini criticava aspramente la televisione: essa si era sostituita, attraverso modelli mortalmente affascinanti, poiché privi di emozioni, alla scuola e alle tradizioni religiose nel processo di costruzione dell’identità degli italiani. Inoltre, la televisione aveva condotto il popolo del Bel Paese a una laicizzazione ebete, dal momento che lo scenario democristiano si era mutato in uno scenario falsamente laico e altrettanto falsamente tollerante dopo il referendum del 1974. Tale evento, però, fu ambiguamente accolto dall’ultimo Pasolini perché condusse ad un’apertura politica delle masse verso il Partito Comunista Italiano e che quindi ostruì la “dominazione clerico-fascista” (volendo citare lo stesso scrittore bolognese) della Democrazia Cristiana. La mutazione antropologica portava con sé anche il ritorno di fiamma di vecchie ideologie che, fondamentalmente, erano sempre state legittimate dallo Stato stesso dopo la fondazione del partito di Giorgio Almirante. Le stragi di matrice nera di Milano, di Brescia e del treno Italicus tra 1969 e 1974, condannate aspramente e a più riprese da Pasolini, avevano instaurato un clima di terrore che coinvolgeva, innanzitutto, la letteratura e il cinema e aveva, contemporaneamente, investito la popolazione italiana di un moralismo inaccettabile per l’autore perché fondato su dubbi principi etici. In questo quadro, s’inserisce anche la corruzione politica e la massoneria della Loggia P2, si pensi soltanto all’arresto di Michele Sindona e alle tangenti petrolifere versate ai partiti di governo: la mutazione antropologica è testimoniata anche da come la corruzione sia ormai un elemento sistematico. Da qui scaturisce la necessità, nell’ultimo Pasolini, di invocare un processo per giudicare le autorità democristiane che si erano macchiate di questi e altri crimini, probabilmente alludendo alle stragi nere appena citate. Per queste ragioni lo scrittore chiese sostegno a illustri colleghi come Alberto Moravia o Giorgio Bocca, forzando la mano su come la sete di potere democristiana si fondasse su una reale perdita di dominio a causa dell’avanzata storica di una nuova forma di comando che non sapeva cosa farsene della DC, di aderire a quel manifesto intellettuale che potesse realizzare concretamente quel processo che esisteva, nelle “Lettere Luterane”, per ora solo in via metaforica.
Non a caso Pasolini criticava aspramente la televisione: essa si era sostituita, attraverso modelli mortalmente affascinanti, poiché privi di emozioni, alla scuola e alle tradizioni religiose nel processo di costruzione dell’identità degli italiani
L’ultimo Pasolini auspica costantemente l’avvento di una nuova epoca che non potrà attendere molto a compiersi, ma resta invischiato nella sua stessa logica divinatoria quando rifiuta di credere che la mutazione antropologica italiana abbia davvero convertito lo Stato a una democrazia laica. D’altronde è impossibile pensare di riformare la politica senza riformare gli elettori e così, nel silenzio più assordante, tutto rimane com’è o muta solo superficialmente. Infatti, alla fine, il processo venne organizzato veramente, ma Pasolini era ormai morto da quasi vent’anni e non fu soltanto la Democrazia Cristiana a crollare per sempre. Viene da chiedersi come si potrebbe spiegare altrimenti l’avvento dei vari governi di Berlusconi, la demonizzazione e la riabilitazione di Craxi, la collusione tra organi di potere e cosche criminali, se si volesse volutamente evitare di rifarsi alle categorie e alle contraddizioni evidenziate dallo stesso Pasolini riguardo i rapporti tra mutazione antropologica, italiani e Stato nei suoi scritti finali. Nei vari articoli che il bolognese pubblica sul “Corriere della Sera” e “Il Mondo”, si nota l’osteggiamento della rivoluzione conformista, dell’omologazione culturale, dei principi consumistici che avevano trasformato anche gli stessi ragazzi delle periferie romane, una volta traboccanti di vitalità, in copie malfatte di loro stessi, tanto da ritenere impossibile girare “Accattone” negli anni Settanta con gli stessi risultati del 1961. Idee anticapitalistiche investono ogni riga di questi trafiletti, generando reazioni varie benché spesso negative: essendo generalmente di estrazione borghese e padronale il quotidiano in cui comparivano, Pasolini veniva tacciato di schematismo ideologico, di incoerenza, di passatismo. In realtà, egli stava soltanto realizzando (anche con un certo sarcasmo) un quadro dettagliato della società del suo tempo, stava rivelando alla classe dominante le contraddizioni di questa condizione sociale, stava annunciando la fine di un’epoca storica. D’altronde, a creare una differenza tra un giovane fascista e un giovane antifascista, negli anni Settanta, non era altro che la fine del fascismo e antifascismo classici: di nuovo, la mutazione antropologica.
Viene da chiedersi come si potrebbe spiegare altrimenti l’avvento dei vari governi di Berlusconi, la demonizzazione e la riabilitazione di Craxi, la collusione tra organi di potere e cosche criminali, se si volesse volutamente evitare di rifarsi alle categorie e alle contraddizioni evidenziate dallo stesso Pasolini riguardo i rapporti tra mutazione antropologica, italiani e Stato nei suoi scritti finali
La riduzione degli italiani a un solo modello di comportamento, quello imposto dal consumismo imperante, svuotava di senso tutte le vecchie categorie di giudizio e relegava ogni intellettuale ad avere meramente il ruolo di osservatore passivo; tale condizione emerge con assurda ferocia in “Petrolio” e negli “Scritti Corsari”, ma non sarà Pasolini l’unico ad esserne investito. Prima che in Italia, infatti, già in Francia e Germania si potevano cogliere i frutti malsani del marxista “genocidio culturale”, soltanto che nel Bel Paese, mentre Pasolini delineava anche la scomparsa delle lucciole o le ragioni per le quali i capelli lunghi avevano perso la loro carica eversiva, tutti gli altri intellettuali si concentravano unicamente sui vertici del potere politico, lasciandolo solo in questo lutto folklorico e giungendo ormai troppo tardi all’appello di sostegno. È quindi evidente come le opere degli anni Settanta di Pasolini si presentino come saggistica politica fondata sullo schema retorico della requisitoria, completamente disinteressata a sfumature o attenuazioni ideologiche e destinata a condannare quella mutazione antropologica che avrebbe condotto, nel giro di poco tempo, alla formazione di una classe sociale totalmente rinnovata nei costumi e dimentica delle proprie origini. Ne consegue che tutto ciò che è empiricamente osservabile, per l’autore, ha il dovere di non essere taciuto: siano essi corpi, volti, modi di fare o colori, è necessario che se ne discuta repentinamente e con fare concitato, prima che diventino maleodoranti, viscosi e oscuri come petrolio.
Yuri Sassetti è nato il 15 gennaio 1995 a Siena. Una volta conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università degli Studi di Siena con una tesi sulle figurazioni del vampiro nella letteratura gotica inglese, decide di proseguire il percorso di formazione nella città dove è nato iscrivendosi a Lettere moderne ma specializzandosi nelle letterature straniere. Ama leggere e scrivere poesie, suona la chitarra in una band e trova interessante il cinema impegnato. Attualmente sta pensando alla raccolta e pubblicazione di una serie di saggi di critica letteraria.
Photo by Dmitry Ratushny