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La pioggia e le percosse ricordarono a Taiwo di essere vivo. Quel ritmico infrangersi dell’acqua sull’asfalto lo tranquillizzava. Il dolore sembrava acuire i suoi sensi.
Allora esisto, si disse. Sono un uomo anche io.
I colpi che riceveva rimbombavano al suo interno, battere e levare. Tempo e spazio che si rigenerano in una coscienza impalpabile.
Gli occhi si chiudevano per poter assaporare meglio quel doloroso momento di presenza al mondo. Si aprivano per sfuggire alla realtà.
Un azzurro violento lo avvolse. Improvvisamente si sentiva affogare; un’isola di gomma stava per sprofondare, e con lei i suoi ultimi amici.
Non aveva mai pensato di appartenere a una categoria, eppure, a sua insaputa, ne faceva parte.
E mentre affogava nel blu vide due occhi neri, e poi un volto, un volto sofferente, ma fiero.
Una dea, forse no, una madre, la madre.
Una categoria anche quella: Madre…Ma la madre è Madre. E tu sei altro. Nel suo grembo sei in lei ma non sei lei.
Cominci a nuotare, nella placenta cominci a dimenarti per uscire: è un parto, poi la luce.
Ecco, lì in fondo una barca, sono qui per te, per voi. Abbi fede nell’umanità, del buono c’è ovunque.
Vedi il porto: finalmente Terra.
Ma i calci continuavano a far male, qualcuno ti sputa addosso. Del buono c’è non temere.
I ragazzi che ti salvarono erano gentili, una volta sulla terraferma ti schedarono, pensavi di aver sbagliato qualcosa. Do you want to hurt me? gli chiedesti. Loro sorrisero. Bastò un’affettuosa pacca sulla spalla a rinvigorirti.
Eri stato accolto.
Non era certo un paradiso questo nuovo mondo, ma a te piaceva, avevi stretto delle nuove amicizie, il mangiare non era granché, ma bastava per tirare avanti.
La bocca aveva uno strano sapore metallico, era il sapore ferroso e amaro del sangue. Lo stesso sangue che scorre nelle vene dei tuoi aguzzini, lo stesso sangue.
Anche i terroristi di Boko Haram che hanno ucciso tuo padre sono come te, sono come gli occidentali che tanto odiano, sono individui anche loro, dei pessimi individui forse, ma umani, come tutti.
In silenzio, senza opporre resistenza, sentiva le ossa rompersi eppure nonostante tutto continuavano a picchiare.
Forse ho sbagliato io, disse tra sé e sé.
Forse sì, forse non dovevi fuggire dalla struttura, avevi in testa di fare chissà cosa, pensavi di essere una persona normale? Pensavi di essere libero? Che illuso.
Sei un reietto, ecco cosa sei, ti sei ritrovato a spacciare. Nessuna pietà, fossi stato italiano poi…
Scusa mamma, ho deluso anche te.
I suoi ultimi battiti furono un vibrare infinito. Mentre un rivolo di sangue gli scorreva sul volto, proferì a occhi chiusi un’ultima muta preghiera:
“A generare questo odio è forse la paura di non riconoscerci? Forse! Allora non siamo tutti uguali. Allora siamo diversi. Sì, ora ho capito siamo tutti diversi, Dio, è vero che siamo diversi, Dio?
Ma allora perché non ci hai fatto uguali, allora perché non abbiamo lo stesso volto, la stessa voce, lo stesso fisico, la stessa altezza, perché? Perché sono nero? Perché gli altri sono bianchi? Perché, Dio, perché?
…
Ma non fa niente. Va bene così. Lo accetto! Il tuo è un ottimo lavoro. È da un po’ che non ti prego, ma è difficile campare, e poi ti penso spesso, è lo stesso, vero?
Lo sai bene, ho commesso anche io i miei errori, ho sbagliato, ma mi sentivo tanto solo. Solo la mala non discrimina, è una famiglia anche quella, sai?
E poi avevo paura di avvertire la diversità, in ogni sguardo, in ogni gesto, persino i miei passi li sentivo diversi.
Ma ora ho capito, ora tutto questo mi attrae, mi arricchisce, mi rende felice. Grazie, Dio, per questa varietà. Grazie!
Dio, un’ultima cosa: spero mi perdonerai, ma io proprio non riesco ad assolvere chi mi ha portato via tutto questo. Dio, il genere umano lo maledico, Dio, scusa, sono egoista, lo so, scusa, ma in fondo sono umano anch’io”.
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