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Tra poche ore, precisamente quando scoccherà la mezzanotte del primo gennaio, con il relativismo tipico del fuso orario mondiale, calerà il sipario sugli anni Dieci del Duemila e si alzeranno i calici per brindare l’avvento della nuova decade. Insieme ai buoni propositi per l’anno nuovo, verrà spontaneo trarre un bilancio degli ultimi dieci o venti anni appena passati e anche la letteratura sarà chiamata a passare al vaglio le opere che, forse più minuziosamente di altre, hanno saputo descrivere lo Zeitgeist degli inizi del XXI secolo. D’altronde, i critici si troveranno a una scomoda e gravosa distanza, messi lì a cento anni dal modernismo di Eliot e Joyce, nonché a cinquanta dalle esperienze del più maturo postmodernismo, e si esigeranno delle risposte che possano soddisfare la strenua ricerca dei degni eredi del passato e dei maggiori rappresentanti di una corrente letteraria di cui ancora non si hanno neanche gli strumenti adatti per darne una definizione nitida, invischiata com’è tra le logiche del mercato, la costante diminuzione del pubblico della letteratura e la sostanziale mediocrità di gran parte delle pubblicazioni. In sintesi, sarà necessario provare a definire un canone per questo – mi si passi l’etichetta – Neomodernismo che, almeno in Italia (poiché sulla letteratura nostrana sarà incentrata la digressione), è fatto di una narrazione antisperimentale, di recuperi postmoderni, di prospettive tardo avanguardistiche, di rappresentazioni neorealiste del nostro Paese e di una grottesca attenzione per i social media nonché per la disgregazione della comunità. Come si nota, evidentemente, il miglior modo per definire le esperienze letterarie italiane degli ultimi venti anni è rappresentarle nella loro prismatica contraddittorietà, sempre incerti su un’analisi definitiva e costantemente ben disposti a includere ogni frammento di quel mondo frastagliato che si è manifestato a noi dopo l’esplosione della globalizzazione virtuale. Non a caso è necessario citare il Web, visto che ha rimesso in discussione il concetto di letteratura, e di ciò che merita essere pubblicato, attraverso libere forme di comunicazione fino a qualche decennio fa imprigionate all’interno di redazioni e fiere editoriali.
In sintesi, sarà necessario provare a definire un canone per questo – mi si passi l’etichetta – Neomodernismo che, almeno in Italia, è fatto di una narrazione antisperimentale, di recuperi postmoderni, di prospettive tardo avanguardistiche, di rappresentazioni neorealiste del nostro Paese e di una grottesca attenzione per i social media nonché per la disgregazione della comunità.
Nel costante pullulare delle nuove opere letterarie, però, qualcosa riesce a emergere dal magma ed è capace di risvegliare l’interesse di una critica troppo spesso intontita dal frastuono di questo mondo avvezzo solamente a urlare frasi su carta per risaltare sui colleghi fino a perdere la voce e, quindi, eclissarsi in pochissimi anni. Qualcosa permane, qualcosa di rappresentativo della nostra generazione e di quest’epoca riesce a scuotersi dal nichilismo della contemporaneità e dal livellamento delle possibilità, infilandosi poi in una strada poco battuta e sterrata: è in questo spazio a metà tra la città e la campagna, tra l’innovazione e la tradizione, che si dovrebbe situare il canone del Neomodernismo. La società manichea in cui viviamo, fatta di poca retorica e troppe azioni poco razionali, spinge a prendere una posizione, a parlar chiaro, così da poter essere arsi sul rogo una volta persa la scommessa; anche la critica letteraria non è esente da questa tortura. E allora sia: chi ha percorso la strada poco battuta e sterrata, forse ancora prima dei prosatori del XXI secolo, è il poeta Milo De Angelis. Se già all’esordio (Somiglianze; Guanda, 1976) aveva dimostrato una particolare riluttanza per quella che era la corrente poetica predominante al tempo, la quale trovava il suo spazio retorico tra il neoavanguardismo e il dibattito contingente, preferendo invece la difficile ma attualissima rappresentazione di un adolescente alla ricerca di un’identità e vessato dai traumi della sua età, con Millimetri (Einaudi, 1983) esplode quello stile oracolare, fatto di una scrittura densa e visionaria, che è ancora percepibile in molte opere in prosa e in poesia dei primi anni Duemila. Per non parlare, poi, delle raccolte del nuovo millennio, edite da Mondadori, Tema dell’addio (2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010), Incontri e agguati (2015), dove i temi di malattia e morte investono prepotentemente i versi sulla pagina e si espandono come bitume su una società apatica e, casomai, dedita all’atto violento come ci viene riportata da anche autori come Andrea Piva o Marco Missiroli. La ricerca della propria identità in una realtà sempre più indistinta è percorsa anche e soprattutto nel romanzo, come si nota dal caso di Antonio Tabucchi quando, prima nel 1985 e poi nel 1986, pubblica rispettivamente Notturno indiano e Piccoli equivoci senza importanza (Sellerio; Feltrinelli): è il riflesso in prosa del processo inaugurato da De Angelis, dove un giovane io frammentato cerca un suo posto in un mondo capace soltanto di offrirgli uno dei mille specchi che gli altri sanno porgergli e che, infine, si rivelerà un processo inconcludente perché i brandelli d’essere si sono ormai disciolti per sempre. Ma Tabucchi ha saputo andare oltre e, in maniera gargantuesca, ha fagocitato nella sua opera anche l’impegno politico tramandato da un ormai scomparso neorealismo, come si vede dalla situazione politica italiana, oscillante tra la crisi della Prima Repubblica e l’avvento di Berlusconi, in cui Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994) è stato composto e di cui porta riferimenti culturali. Ed è con queste premesse che si possono spiegare i temi di gran parte delle opere del nuovo millennio dell’iberista toscano: Si sta facendo sempre più tardi (Feltrinelli, 2001) in cui trionfa la parola fine a se stessa e in cui chiunque può trovare un frammento della propria identità; Tristano muore (Feltrinelli, 2004) dove si raccontano le ultime ore di vita di un ex partigiano che si sta trascinando via con sé anche la Storia e l’Ideologia; Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli, 2009), invece, cerca di coinvolgere entrambe le spinte poetiche, attraverso una scrittura vagamente ispirata a Borges, per mezzo di personaggi che si confrontano con la loro esperienza di vita e con la propria epoca storica alla ricerca di una comprensione esistenziale mai veramente tale.
Qualcosa permane, qualcosa di rappresentativo della nostra generazione e di quest’epoca riesce a scuotersi dal nichilismo della contemporaneità e dal livellamento delle possibilità, infilandosi poi in una strada poco battuta e sterrata: è in questo spazio a metà tra la città e la campagna, tra l’innovazione e la tradizione, che si dovrebbe situare il canone del Neomodernismo.
Di estrazione kafkiana è invece l’opera di Antonio Moresco, soprattutto per quanto concerne la consistente trilogia Giochi dell’eternità, composta da Gli esordi (Feltrinelli, 1998), Canti del caos (Mondadori, 2009, edizione completa) e Gli increati (Mondadori, 2015). I testi in questione affrontano la frammentarietà di una società in evoluzione e composta da delle non-identità attraverso l’abolizione dell’introspezione psicologica dei personaggi. Il lettore è perciò estraniato dalla mente dei soggetti narrati ed è costretto all’interpretazione dei soli fatti; questo processo incide pesantemente sullo stile dei romanzi, infarcito quindi di descrizioni volte alla rappresentazione del non-detto (ma comunque fortemente metaforiche) e al delineamento di un’epica dell’individuo mai pacificata. Non trascurabile, infine, l’elemento autobiografico utile a dipingere l’Italia del tempo, il quale emerge, per esempio, nell’impegno politico per la sinistra extraparlamentare o nell’esperienza del collegio religioso in gioventù. Sulla falsariga del Pasolini delle borgate romane o di una rilettura neomillenaria di Verga si colloca Alessandro Piperno, soprattutto per Con le peggiori intenzioni (Mondadori, 2005) e Persecuzione, il fuoco amico dei ricordi (Mondadori, 2010). La complessa e caotica ambientazione dell’Urbe, nonché il contesto familiare incrinato, offrono lo scenario perfetto per rappresentare la vita dei personaggi più in voga nella letteratura neomodernista: i maudits, quei soggetti sempre sull’orlo di una crisi sociale e psicologica e incapaci di affrontare una realtà pronta a fagocitarli al primo attimo di distrazione. In Piperno troviamo tutto, esattamente come nel Siti di Troppi paradisi (Einaudi, 2006) e de Il contagio (Mondadori, 2008) con cui l’autore romano condivide certe caratteristiche narrative: l’indeterminatezza d’essere, la grottesca inclinazione alla perversione, la Grande Storia che fa da sfondo alle piccole storie individuali, la disgregazione comunitaria e il fallimento di un progresso che non è in grado di renderci felici. Se osserviamo in maniera attenta, inoltre, è possibile vedere in filigrana la stessa spinta creativa di certa letteratura americana scritta tra le due guerre mondiali. In stretto rapporto con Tabucchi, ma più per questioni personali che per influenza letteraria, va menzionato Andrea Bajani e il suo stile dell’incompiutezza, il quale emerge non soltanto dai personaggi insoddisfatti della propria vita ma anche dai titoli delle sue opere, sempre proposti come interrotti da un’accidentale mancanza di inchiostro. Si pensi a Morto un papa (Portofranco, 2002), Cordiali saluti (Einaudi, 2005), Se consideri le colpe (Einaudi, 2007), Ogni promessa (Einaudi, 2010), Mi riconosci (Feltrinelli, 2013) e si avrà un importante spaccato. Anche Bajani è romanziere del non-detto come Moresco, ma in lui è molto più forte il contesto impiegatizio che, da un lato, lo ricollega idealmente ai poeti Giudici e Pagliarani, mentre, dall’altro, porta la sua scrittura a conservarsi in naftalina per proteggersi dal deterioramento di un tempo che scorre troppo velocemente per restare impresso sul foglio. I personaggi di Bajani sono attraversati dalla stessa crisi dell’identità dei maudits neomodernisti ma, nel ricercare quell’impossibile completezza, peggiorano la loro condizione vestendo la maschera dei potenti e facendosi fautori del destino altrui, per poi perire nella miseria della malattia che, da De Angelis in poi, sembra ambiguamente rappresentare tanto una patologia quanto il malessere esistenziale.
La complessa e caotica ambientazione dell’Urbe, nonché il contesto familiare incrinato, offrono lo scenario perfetto per rappresentare la vita dei personaggi più in voga nella letteratura neomodernista: i maudits, quei soggetti sempre sull’orlo di una crisi sociale e psicologica e incapaci di affrontare una realtà pronta a fagocitarli al primo attimo di distrazione.
Di autori da proporre per un canone letterario del Neomodernismo ve ne sarebbero ancora altri, quali la drammaturga Lucia Calamaro oppure il filosofo Piergiorgio Donatelli, capaci di trasporre a teatro o nella saggistica alcuni temi e stilemi riconducibili al grottesco e alla disintegrazione esistenziale di fronte alle infinite possibilità del reale, ma ritengo necessario concludere menzionando un autore legato tanto alla poesia quanto alla prosa neomodernista come Francesco Pecoraro, suggello perfetto a una dissertazione cominciata con i versi di De Angelis e le righe di Tabucchi. Nei due romanzi dello scrittore romano, La vita in tempo di pace e Lo stradone (Ponte alle Grazie, 2013; 2019), nonché nella raccolta poetica Primordio vertebrale (Ponte Sisto, 2012), la prima cosa che si nota è l’assenza del futuro, visto in maniera oscura e indefinita da un soggetto sulle soglie della vecchiaia. La tensione principale della scrittura di Pecoraro è infatti la visione retrospettiva: i suoi personaggi, tanto in prosa quanto in poesia, non hanno che il passato per ricercare un appiglio alla realtà in disfacimento, intrisi come sono di quel nichilismo tipico di chi un’identità l’aveva trovata in un’ideologia politica o in un’epoca storica che il tempo ha risucchiato meschinamente. In questo paradossale cortocircuito, il personaggio pecorariano si identifica col suo stesso autore: infelice perché incapace di leggere correttamente la realtà e afflitto perché destinato a una pirandelliana (e heideggeriana) morte dell’essere prima dell’esserci. Come si nota, il panorama del neomodernismo è vario e frastagliato come gli eventi susseguitisi nel corso dei primi vent’anni del XXI secolo, per questo è difficile rappresentare in modo univoco le categorie estetiche di tale corrente letteraria, benché tutto si rapporti al malessere esistenziale di un soggetto avulso dalla realtà in cui vive (si potrebbe definire Verfallenheit) e costantemente terrorizzato da paure di vario genere. Questa condizione, già soggiacente in epoca di postmodernismo, non poteva che rendersi estremamente acuta con l’avvento dei social media, i quali ci hanno messo davanti le infinite possibilità del mondo ma non insegnandoci a comprenderlo. La letteratura, avvezza a fagocitare ogni esperienza del reale, doveva necessariamente uscirne traumatizzata.
Yuri Sassetti è nato il 15 gennaio 1995 a Siena. Una volta conseguito il titolo di laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università degli Studi di Siena con una tesi sulle figurazioni del vampiro nella letteratura gotica inglese, decide di proseguire il percorso di formazione nella città dove è nato iscrivendosi a Lettere moderne ma specializzandosi nelle letterature straniere. Ama leggere e scrivere poesie, suona la chitarra in una band e trova interessante il cinema impegnato. Attualmente sta pensando alla raccolta e pubblicazione di una serie di saggi di critica letteraria.
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