Filosofia

Wittgenstein e il linguaggio privato


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A partire dal paragrafo 243 delle Ricerche filosofiche Wittgenstein introduce l’argomento del “linguaggio privato”, chiedendosi se sia pensabile un linguaggio in cui uno possa esprimere le proprie esperienze intime ed interiori, sentimenti, umori, un linguaggio insomma in cui le parole «dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private». Un linguaggio dunque che un altro non può comprendere. Wittgenstein ne approfitta allora per introdurre un dispositivo maieutico volto a creare una sorta di confronto tra un atteggiamento di tendenza “comportamentista” e una atteggiamento di natura “coscienzialista”. In verità Wittgenstein aveva affrontato il problema della presunta “privatezza dell’esperienza personale” già in una serie di note e poi di lezioni tenute a Cambridge nel biennio 1934-1936, in cui tenta di decostruire innanzitutto l’idea di una “metafisica della prima persona” (Esperienza privata e dati di senso, 2007). Che cos’è propriamente il dolore? Come posso sapere di provare dolore? Per Wittgenstein il primo madornale errore sta nel processo ostensivo di significazione, per cui noi tendiamo ad associare il significato di una parola al suo nome e all’oggetto che tale nome designa. Siamo quindi tentati di usare «per le parole che indicano impressioni la stessa grammatica che usiamo per le parole che indicano un oggetto fisico» (EP, p. 163). È un’illusione causata dalla nostra grammatica superficiale, che, inserendo ad esempio nella categoria “sostantivi” contemporaneamente termini come “vaso”, “amore”, “radio”, “senso”, ci spinge a cercare per ognuna di queste parole qualcosa che vi corrisponda perfettamente. Tale errata convinzione ci induce a parlare anche del dolore e in generale dei sentimenti come fossero cose, oggetti privati che possono essere identificati con sicurezza tramite una sorta di definizione ostensiva interna e privata. Questo fenomeno, chiamato nelle suddette lezioni “oggettificazione”, già nel Libro blu veniva considerato da Wittgenstein come «una delle grandi fonti di disorientamento filosofico» (p. 5). Come etichettare le impressioni? Bisogna prima di tutto compiere due mosse decisive: 1) abbandonare l’ossessiva ricerca del significato della parola e concentrarci sul suo uso, o meglio derivare il significato di una parola dall’uso che ne viene fatto nel linguaggio; 2) introdurre un’immagine del linguaggio fondata su condizioni di asseribilità (o condizioni di giustificazione) e non più su una logica vero-condizionale. D’altronde sono questi alcuni tra i mutamenti che maggiormente evidenziano le distanze tra il Tractatus e il pensiero wittgensteiniano della seconda fase, insieme con l’idea che né la proposizione né tantomeno il linguaggio siano unità formali, come invece Wittgenstein aveva affermato nella sua opera principale, ma «una famiglia di costrutti più o meno imparentati l’uno con l’altro» (RF, par. 108). Proprio all’inizio delle RF Wittgenstein si scaglia contro l’idea agostininiana di denominazione, che sta alla base del modello “oggetto-designazione”, e non perché tale connessione associativa tra parola e cosa sia illegittima, ma perché essa non corrisponde e non combacia all’intero sistema di funzionamento del linguaggio. Questa formula ostensiva è sì presente all’interno di forme primitive del linguaggio, è anzi alla base dell’addestramento al linguaggio stesso, quando al bambino viene insegnato a parlare, ma è solamente uno dei molteplici e possibili “giochi linguistici” che costituiscono il linguaggio, le attività di cui è intessuto, i suoi variegati modi d’impiego. Ciò dimostra quindi il carattere non-originario del modello ostensivo, che acquisisce piena funzionalità ed efficacia unicamente all’interno di un sistema allargato e conosciuto di azioni e contesti linguistici, in cui una determinata designazione oggetto-nome-significato trova la propria legittimità: «la definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – della parola, quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio» (RF, par. 30). Ecco perché «quando si dice “ho dato un nome a una sensazione”, si dimentica che molte cose devono già essere pronte nel linguaggio, perché il puro denominare abbia senso. E quando diciamo che una persona dà un nome a un dolore, la grammatica della parola “dolore” è già precostituita; ci indica il posto in cui si colloca la nuova parola» (RF, par. 257). La legittimazione del cosiddetto “linguaggio privato” comporta invece 1) che i sentimenti, le emozioni, i dati di senso, siano proprietà esclusiva della persona che li sente; 2) nessuno può avere la certezza di conoscere le sensazioni e i sentimenti altrui. Del dolore dell’altro si potrebbe congetturare solo attraverso i suoi “segni” esterni. Tuttavia, come abbiamo già visto, non esiste nessuna definizione ostensiva interna attraverso cui individuare e intendere una volta per tutte il presunto significato di “dolore”, l’esperienza privata è «una costruzione degenere della nostra grammatica (paragonabile in un certo senso a tautologia e contraddizione)» (EP, p. 84). [La proposizione: «Le sensazioni sono private» è paragonabile a: «Il solitario si giuoca da soli» (RF, par. 248)]. Anche supposto che io tenga un diario su cui, associata una determinata sensazione alla lettera S, registrare i giorni in cui provo tale sensazione, portando avanti una sorta di definizione ostensiva, scrivendo il segno S e concentrandomi sulla sensazione corrispondente, tale regolare procedimento, sebbene mi permetta di ricordare magari correttamente in futuro questa connessione, non possiede comunque alcun criterio di correttezza (RF, par. 258). Ma allora in che modo le parole si riferiscono alle sensazioni? Come imparare e comunicare il dolore? Wittgenstein vira sull’osservazione del comportamento: «un bambino si è fatto male e grida; gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore» (RF, par. 244). Ad una prima ed autentica esplicitazione di dolore (il grido) si sostituisce una sua verbalizzazione successiva, che però è allo stesso tempo qualcosa di differente rispetto al grido vero e proprio. Se presupponessimo che alle parole con cui esprimo determinate sensazioni fossero collegate di norma altrettanto determinate manifestazioni esterne, riconoscibili entro criteri comuni e comunitari, il mio linguaggio perderebbe qualsiasi privatizzazione, qualcun altro potrebbe comprenderlo. Non è infatti grazie a una definizione data ogni volta da una persona singola ed isolata che “dolore” diventa il nome di una sensazione, ma perché appartiene al gioco linguistico proprio di una comunità. Definire “privatamente” una parola sarebbe paradossale come “far regalare” denaro dalla mano destra a quella sinistra, un fatto senza alcuna rilevanza pratica, dato che non si potrebbe di certo considerare un “regalo” (RF, par. 268). Wittgenstein sembra voler sottolineare allora la superfluità degli stati soggettivi sull’utilizzo comune e quotidiano delle parole. Liberi dal mito dell’“oggetto privato” potremmo in un certo senso affermare di vedere ciò che gli altri sentono e provano (Perissinotto, 2003). «Il gioco che giochiamo con la parola “mal di denti” dipende completamente da questo: che vi sia un comportamento che chiamiamo l’espressione del “mal di denti”» (EP, p. 41). Wittgenstein cerca di dimostrare come in realtà il processo di conoscenza dei nomi delle sensazioni sia pubblico, o meglio che la “privatezza” delle sensazioni possa essere legittimata solo all’interno di una cornice di dimensione pubblica precostituita e condivisa. D’altronde, a colui che rimane scettico sulla possibilità di sapere con certezza se l’altro provi o meno dolore, Wittgenstein risponde a mo’ di sfida: «prova un po’ a mettere in dubbio – in un caso reale – l’angoscia, il dolore di un’altra persona!» (RF, par. 303). Certo, qualcuno potrebbe mentire o camuffare il proprio dolore, ma anche tale eventualità fa parte di un gioco linguistico che deve essere imparato e che viene imparato da tutti.

Proprio all’inizio delle RF Wittgenstein si scaglia contro l’idea agostininiana di denominazione, che sta alla base del modello “oggetto-designazione”, e non perché tale connessione associativa tra parola e cosa sia illegittima, ma perché essa non corrisponde e non combacia all’intero sistema di funzionamento del linguaggio

In Wittgenstein su regole e linguaggio privato (Wittgenstein on Rules and Private Language, 1982) Kripke scrive che il “vero argomento” del linguaggio privato si sviluppa in realtà nelle RF nei paragrafi precedenti al 243. Questo perché il filosofo americano non considera la sezione sul “linguaggio privato” speculativamente separata né dalla trattazione del paradosso scettico formulata a partire dal paragrafo 201 né più in generale dalle considerazioni che Wittgenstein porta avanti sul “seguire una regola”. Non si tratta più dunque di dimostrare solamente l’impossibilità di un linguaggio privato, ma di evidenziare l’impossibilità di qualsiasi linguaggio, che sia pubblico, privato o diversamente caratterizzato. Nel paragrafo 201 Wittgenstein scrive: «il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché qualsiasi modo d’agire può essere messo d’accordo con la regola». «Credere di seguire una regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola ‘privatim’: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola» (RF, par. 202). Quando ho imparato a fare le addizioni, e a usare il termine “più” e il simbolo “+” per denotare questa determinata funzione matematica, ho “afferrato” una regola, la regola dell’addizione. Dal momento che io sono in grado di collegare una rappresentazione simbolica esterna (“+”) e una rappresentazione mentale interna (l’addizione), sebbene abbia utilizzato questa operazione correttamente solamente per un numero finito di casi, la regola influenza la mia risposta anche per tutti i possibili casi futuri. All’“afferrare” la regola dell’addizione è dunque connessa l’idea che le mie intenzioni passate riguardanti l’addizione determineranno allo stesso modo le mie risposte in indefiniti casi di somme future. È qui che s’inserisce il paradosso scettico kripkiano. Supponiamo che uno scettico mi chieda quanto faccia 68 più 57 e che io, collegando il “più” alla regola associata all’addizione come ho sempre fatto in tutti i casi passati, risponda, convinto della mia correttezza, “125”. Lo scettico allora potrebbe replicare che invece la risposta giusta è “5” perché io ho frainteso il mio utilizzo passato di “più”, considerandolo associato alla funzione addizione, quando esso era invece collegato alla vi-addizione, una funzione uguale all’addizione per tutti i casi di somme eccetto quello tra 68 e 57. Di conseguenza, non essendo distinguibili addizione e vi-addizione in tutti i casi da me calcolati in precedenza, continua lo scettico, io ho sempre inteso la vi-addizione come funzione-regola associata al “più” e quindi la mia risposta “125” è ora in conflitto con le mie precedenti intenzioni linguistiche. Il problema è che io non posso dimostrare in alcun modo che “125” è davvero la risposta corretta, perché non posso citare a mia garanzia nessun fatto che dimostri che la mia risposta è in accordo con il mio uso passato di “più”, inteso come addizione e non vi-addizione. Non solo non esiste alcun fatto che riguardi me che possa distinguere il mio intendere “più” dal mio intendere “viù” sia nel presente che nel passato, ma non può esistere nessun fatto che riguardi me che possa distinguere tra il mio intendere “più” e il mio non intendere assolutamente nulla. L’argomento scettico resta insuperabile. Di conseguenza non esisterà alcun fatto come “intendere con una parola qualcosa” e per agire secondo regola dovremo di volta in volta scegliere ex-novo. Wittgenstein formula a sua volta una soluzione scettica del suo stesso paradosso, negando dunque che un singolo individuo, preso a sé ed isolato, possa mai intendere qualcosa. Il filosofo austriaco insiste con forza sulla tesi che non esista alcuna esperienza interna e speciale di “intendere” e che se anche esistesse uno stato mentale “qualitativo” tale da farmi credere di aver inteso una regola (ad esempio di intendere col “più” l’addizione) in realtà esso non saprebbe indicarmi da solo come applicare tale regola in casi nuovi. Esistono quindi “stati” o “processi psichici” riconoscibili introspettivamente, ma il comprendere non è tra questi: «nel senso in cui esistono processi (anche processi psichici) caratteristici del comprendere, il comprendere non è un processo psichico. (Processi psichici sono: l’aumentare o diminuire di una sensazione di dolore, l’ascoltare una melodia, una proposizione)» (RF, par. 154). Questo non vuol dire che normalmente quando qualcuno dice di intendere qualcosa e di seguire una regola sia nel torto, ma che non esiste alcun “super-fatto” che lo possa giustificare (RF, par. 192) o alcuna possibilità di “afferrare” in un solo istante «tutto quanto l’impiego» di un parola (RF, par. 197) o alcuna possibilità che «lo sviluppo futuro debba essere già in qualche modo presente nell’atto dell’afferrare» (RF, par. 197). Emerge allora l’impossibilità anche dell’esistenza di un “linguaggio privato”. Come scritto in precedenza, adottando la nuova concezione di linguaggio che viene fuori dal paradosso scettico, Wittgenstein passa da un modello vero-condizionale ad uno basato su condizioni di asseribilità (o condizioni di giustificazione): quali sono le circostanze adatte in cui è appropriato fare una determinata asserzione? Dal momento che «non è possibile che un solo uomo abbia mai seguito una regola una sola volta» (RF, par. 199), devono sussistere degli usi convenzionali condivisi da una comunità linguistica che legittimino l’attribuzione di determinati significati a determinate parole. Il significato dunque non dipenderà più dalle condizioni di verità, ma dalla sua accettazione e dalla sua condivisione all’interno di una comunità linguistica. Se non esiste, come abbiamo già visto, alcun fatto oggettivo che spieghi perché un dato individuo intenda col “più” la formula addizione, sussiste invece un “gioco linguistico” comunitario, in virtù del fatto che generalmente andiamo d’accordo, che ci autorizza a dirci a vicenda che col “più” intendiamo proprio l’addizione. Ma per andare d’accordo esistono dei “criteri”, che stabiliscono il grado di conformità di ciascun soggetto al comportamento della comunità stessa, generalmente concorde nei suoi modi d’agire: «ricordiamoci che ci sono certi criteri di comportamento per dire che un altro non comprende una parola, per quando una parola non gli dice nulla ed egli non sa che farsene. E ci sono criteri per dire che ‘crede di comprendere’ una parola, collega ad esso un significato, ma non quello giusto. E infine ci sono criteri per dire che comprende una parola correttamente» (RF, par. 269). Accade quindi che se un soggetto “supera” una certa serie di controlli della comunità, verrà considerato come uno che “segue la regola”. L’accordo comunitario su termini elementari è dunque abbastanza ovvio e semplice, ma quando si tratta di accordarsi su un termine come ad esempio ‘dolore’? Torniamo al caso del bambino. Il fatto che esistano delle circostanze esterne comportamentali ben osservabili permette all’adulto di capire che il bambino sa cosa vuol dire “provare dolore”. Ecco perché un “processo ‘interno’ abbisogna di criteri esterni” (RF, par. 580): sono proprio quest’ultimi infatti a garantire la concordanza necessaria tra più individui, nonché l’approvazione condivisa di un determinato significato. Inoltre, dal momento in cui comprendo e do per assoldato che un individuo ha piena padronanza dell’espressione “dolore”, successivamente, anche in casi eventuali in cui non vi siano “prove esterne” del suo dolore, crederò ugualmente al suo “dolore” e dunque proverò compassione o tenterò di aiutarlo.


Bibliografia:

Kripke S., Wittgenstein, su regole e linguaggio privato, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

Perissinotto L., Wittgenstein: una guida, Feltrinelli, Milano, 2003.

Wittgenstein, L., Esperienza privata e dati di senso, Einaudi, Torino, 2007.

                           Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 1983.

                           Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 2009.