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Sotto il «cielo alcionio»[1] Gabriele D’Annunzio fa rivivere le fantasie pagane che, sin dalla giovinezza, hanno animato il tessuto poetico delle sue liriche, nelle visioni di un’estate in cui passate reminiscenze e distanti promesse si ammantano della concretezza di chi sa di poter afferrare la vita e sottometterla alla propria volontà. La Concordia oppositorum, acquisita nella sua maturità letteraria, dà l’avvio alla più audace delle sue rivendicazioni: essere “l’ultimo figlio degli Elleni” e l’unico a poter concedere a Giovanni Pascoli il titolo di “ultimo figlio di Vergilio”[2]. Inoltre, D’Annunzio, in modo definitivo e icastico, sancisce le differenze e le vicinanze che intercorrono tra lui e gli altri due massimi autori italiani del tempo, ai quali egli affibbia le reciproche aree culturali d’influenza: Lesbo per Carducci e Roma per Pascoli. A se stesso, invece, attribuisce la Magna Grecia. Come osserva Emanuela Scicchitano in «Io, ultimo figlio degli Elleni». La grecità impura di Gabriele D’Annunzio, la «collocazione geografica dell’antico, a cui D’Annunzio punta, vuole emulare in poesia i risultati ottenuti in architettura da Gottfried Semper, lo studioso tedesco che nella prima metà dell’Ottocento mise in discussione l’esaltazione di Winckelmann di una Grecia candida come i marmi delle sue statue dimostrando come sia queste che i templi pagani fossero stati vivacemente dipinti»[3]. Una Grecia, quindi, sulla spinta di Wagner e Nietzsche, policroma e dionisiaca, che sapeva armonizzare le tinte più varie del suo animo «in una intonazione generale unitaria soave»[4]. Il viaggio verso il nucleo dell’ellenismo è proseguito da D’Annunzio con il fine di restituire concretezza e varietà di colori alla rarefatta rappresentazione neoclassica e romanica della penisola greca; quella che Iperione nel romanzo omonimo di Hölderlin percepiva come la “prediletta patria” dell’anima e del bello contro “il vuoto culturale prodotto dall’ascesa della borghesia e dall’incipiente commercializzazione del libro”. Infatti, come ci ricorda Giorgio Bàrberi Squarotti in Poesia e ideologia borghese, vi si fa strada l’idea della grande città come luogo terribile e desolato, dove non può esserci che la morte dell’arte; D’Annunzio, dunque, avverte all’interno del mondo borghese una diffusa inquietudine, una vaga aspirazione all’irrazionalità cui può dare una risposta solo “la grande orchestra wagneriana”, poiché “solo alla musica è dato esprimere i sogni che nascono nelle profondità della malinconia moderna” (come scrisse in un articolo de La Tribuna nel 1893).
D’Annunzio, in modo definitivo e icastico, sancisce le differenze e le vicinanze che intercorrono tra lui e gli altri due massimi autori italiani del tempo, ai quali egli affibbia le reciproche aree culturali d’influenza: Lesbo per Carducci e Roma per Pascoli. A se stesso, invece, attribuisce la Magna Grecia
Quella dannunziana è la grecità del mito alternativo: la Magna Grecia come terra simbolo del sogno delle “mescolanze vietate”, della contaminazione tra elementi culturali eterogenei, della purezza perseguita attraverso l’ibridazione di tutte le forme. I Greci d’occidente, continua Emanuela Scicchitano, «diventano i portavoce dell’aspirazione dannunziana alla policromia e al poligrafismo, alla sintesi delle letterature in una forma alta e sublime al cui centro si pone l’io, la forza centripeta che tutto attira a sé». Egli è mosso dalla volontà di dar vita a una grecità “novella” sia nei contenuti che nelle forme di espressione, che ribalti il teorema di Bachofen secondo cui: «Un’epoca tarda non crea nuovi simboli e miti. Ad essa manca la freschezza giovanile dell’esistenza. Ma gli uomini d’epoca tarda, maggiormente rivolti all’interiorità, sanno attribuire un senso nuovo e spiritualizzato al patrimonio delle tradizioni tramandate»[5]. La “freschezza giovanile dell’esistenza”, tanto esaltata da Bachofen, D’Annunzio la pedina lungo tutto il corso della sua opera, in cui “attraverso l’esemplarità autobiografica e mitologica esalta la giovinezza, valore assoluto di una vita ascendente, ossimorica della decadenza contemporanea”. D’Annunzio, come afferma Carlo Diano, «non appartiene al diciannovesimo o ventesimo secolo, bensì al secondo millennio avanti cristo». L’esperienza di D’Annunzio – continua Diano – «è l’esperienza dell’uomo del neolitico. Nel fondo del suo essere si agitavano sensi mitici e visioni delle quali egli non poteva avere coscienza immediata e, che soltanto nei momenti culminanti del suo rapimento lirico egli riusciva a tradurre in espressioni perfette. Solo al termine della sua vita egli giunse a capirlo»[6]. Duemila anni avanti cristo perché, come acutamente notò Giorgio Pasquali, se c’era una cosa di cui D’Annunzio poteva vantarsi, era la conoscenza della Grecia. Il greco e la Grecia egli li conosceva “più e meglio del professionale Pascoli”. La sua era una conoscenza diretta. Egli “bevve alla fonte” dice Pasquali e la grecità la conobbe di prima mano, e non attraverso i latini, come accadde in gran parte al Carducci. «Il professionale Pascoli lesse non più ma meno di lui. E non solo i poeti conobbe, e i prosatori, e li usò e li tradusse, ma anche le opere dell’arte figurativa, che i due primi ignorarono. Di greco è permeata gran parte della sua opera»[7].
Quella dannunziana è la grecità del mito alternativo: la Magna Grecia come terra simbolo del sogno delle “mescolanze vietate”, della contaminazione tra elementi culturali eterogenei, della purezza perseguita attraverso l’ibridazione di tutte le forme
Per Diano, quella del divino vate, non è la grecità classica bensì è la grecità ellenistica. Il paesaggio, ad esempio, che è uno degli elementi costitutivi della poetica dannunziana, è un fatto ellenistico; il concepimento dell’arte come gioco anch’esso è ellenistico; la ricerca della guerra per la guerra, per la gloria, «come quell’eroe del Boiardo che era guerriero e mai non aveva pace», anch’esso è ellenistico. Questo tratto, infatti, c’è in D’Annunzio. Il D’Annunzio guerriero combatte sì nel nome dell’Italia, perché profondo e viscerale è stato l’amore di D’Annunzio per l’Italia, ma soprattutto il poeta abruzzese la guerra l’ha intesa come guerra in sé e per sé, ed ha venerato sempre il rischio ed ha costantemente cercato la morte. Uno dei suoi ultimi pensieri, tra l’altro, è stato che la cosa più facile da ricercare e ottenere è la morte violenta. Egli cercava la morte gloriosa e memorabile, epica e leggendaria. Questo elemento lo collega, non per ragioni temperamentali o ideologiche, con questa Grecia eroica. Ma questa Grecia eroica, in D’Annunzio, rimane marginale e secondaria al cospetto di un’altra Grecia: la Grecia mitica. Ed ellenistico, inoltre, riprendendo Pasquali, è anche quel senso di infinito che egli possiede, quel suo trasmutarsi come Proteo in tutte le forme, “quel perdere i limiti del proprio essere nei corpi della natura, nelle cose della natura”. Il grecismo di D’Annunzio, o meglio, l’ellenismo di D’Annunzio, si manifesta quindi sotto un’altra forma, sotto quella che sempre Diano definisce «la sensualità e sensuosità con cui ama la parola, fino all’esuberanza e all’incontinenza, in quella presenza continua della natura che fa dimenticare l’uomo, come si vede già dalle prime opere, in quello sciogliersi nelle cose e farsi tutt’uno con gli alberi, con la terra, con la luce».
[1] G. D’annunzio, Per la morte di un distruttore, v. 368, in Versi d’amore e gloria, a cura di A. Andreoli, N. Lorenzini, Mondadori, Milano, 1982, vol. II, p. 354.
[2] Id., Il commiato, v. 115, II, p. 639.
[3] E. Scicchitano, “Io, ultimo figlio degli Elleni”. La grecità impura di Gabriele D’Annunzio, ETS, Pisa, 2011.
[4] E. Zolla, La figura mitica di Dioniso dall’antichità a oggi, Einaudi, Torino, 1998, p. 64.
[5] J. J. Bachofen, Il simbolismo funerario degli antichi, ed. it. a cura di M. Pezzella, pres. di A. Momigliano, Guida, Napoli, 1989, p. 148.
[6] C. Diano, D’Annunzio e l’Ellade. Atti del convegno “L’arte di Gabriele D’Annunzio” – Venezia – Gardone Riviera – Pescara 7-13 ottobre 1963, Mondadori, Milano, 1968, pp. 51-67.
[7] Ibidem.
Claudio Troilo nasce a Penne (PE) il 20/12/1996. Studia da quattro anni all’università La Sapienza di Roma, dove si è laureato in Lettere moderne per proseguire, attualmente, con la magistrale in Filologia moderna. Le sue più grandi passioni sono la musica, il cinema, la letteratura e la filosofia. In particolare la letteratura italiana, francese e portoghese novecentesca (Pasolini, Moravia, Miguel Torga, Vitorino Nemésio, Saramago, Izzò, Klossowski e Georges Bataille), con non meno spazio per il cantautorato italiano e il rock anglosassone anni ’70.
Immagine: Island of the Dead, 1890 / Arnold Böcklin (MET collection OA)