Critica Letteratura

L’impatto straniero. Breve cronistoria di un innamoramento letterario /2


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In anni bui ed oscuri, taciuti i moti di spirito di una cultura italiana troppo facilmente assoggettata alla dittatura mussoliniana, nuova linfa vitale arrivò dall’America, quell’America che molti disprezzavano e consideravano terra nemica, arretrata, rurale, ignorante e distante anni luce dall’Europa colta e borghese, raffinata e cosmopolita. Anzi, probabilmente, come aggiunge Fernandez:

Senza il fascismo, la censura fascista, la politica fascista d’autarchia culturale, gli intellettuali italiani avrebbero letto senza dubbio i romanzieri americani come li lessero in Francia o negli altri paesi d’Europa: ma non ci avrebbero messo la stessa passione, non si sarebbero dedicati al lavoro ingrato delle traduzioni, infine non avrebbero mitizzato quella terra lontana la cui prima qualità, ai loro occhi, fu d’essere un altrove, un antidoto contro la dittatura.[4]

Parve, a chi seppe davvero comprenderli e ammirarli, senza alcun pregiudizio e limitatezza critica, che gli scrittori americani avessero la forza, il talento, la sfrontatezza per fondare una “nuova classicità”, più viva, più feconda, più energica, più adatta a cantare la modernità dell’uomo e della sua esistenza. Tanto fu incisivo, esteso e fecondo l’approdo prima e il consolidamento poi di queste voci d’oltremanica nel panorama letterario italiano, anche tra i lettori “comuni”, che il regime non poté intervenire in maniera drastica e risolutoria, come avrebbe voluto, considerando l’odio politico e ideologico nei confronti degli Stati Uniti in seguito agli accordi con la Germania e il Giappone. Il fenomeno si impose con tale prepotenza da trovare impreparati persino i vertici del MinCulPop.

Il decennio dal ’30 al ’40, che passerà nella storia della nostra cultura come quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio né io né Vittorini né Cecchi né altri. Esso è stato un momento fatale, e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale della nostra recente cultura poetica. L’Italia era straniata, imbarbarita, calcificata – bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla a tutti i venti primaverili dell’Europa e del mondo. Niente di strano se quest’opera di conquista di testi non poteva esser fatta da burocrati o braccianti letterari, ma ci vollero giovanili entusiasmi e compromissioni. Noi scoprimmo l’Italia cercando gli uomini e le parole in America.[5]

Il già sopracitato Elio Vittorini fu un altro dei protagonisti principali nel processo di crescita, affermazione e legittimazione della letteratura americana nell’Italia di quegli anni. Agendo in modo più pratico e dinamico rispetto a Pavese, lo scrittore siracusano, importante collaboratore editoriale di Mondadori e Bompiani, spinto da quella sua predisposizione naturale alla voracità culturale, sempre tesa a scorgere e a captare i venti e i fermenti più anticipatori ed inesplorati, promosse, tradusse, consigliò libri ed autori americani, permettendo così di farli entrare in pianta stabile nel circolo librario italiano. Un caso emblematico e del tutto particolare è rappresentato da Americana, l’antologia che lo stesso Vittorini curò ed organizzò per Bompiani a partire dal ’39. L’idea di creare un’antologia di testi di autori americani, 33 in totale, tradotti da scrittori italiani già affermati tra i quali Pavese, Montale, Moravia e suddivisa in 9 sezioni che ripercorrono diacronicamente la letteratura americana dagli esordi di Washington Irving sino a Caldwell, esemplifica con evidenza la lungimiranza editoriale e la visualità programmatica del Vittorini curatore, oltre che una devozione intima e spiccatamente personale verso una “tradizione” che merita un encomio autoriale definitivo: «mai un tale omaggio collettivo era stato reso dall’élite intellettuale di un popolo alla letteratura di un’altra nazione».[6] Come per Pavese anche per Vittorini l’incontro con l’altrove americano rappresentò un avvicinamento profondo a quei valori di schiettezza e vitalità umana che in Italia stentava a riconoscere. Non meno fruttifero fu l’approfondimento stilistico e linguistico di quelle voci – introiettate e rielaborate attraverso il processo individuale e intimo della traduzione –, che influenzò notevolmente gran parte delle sue opere successive. Lo stesso Vittorini così scriveva subito dopo la fine della seconda guerra mondiale:

Era tuttavia sugli americani che puntavamo le nostre speranze sulla ripresa del genere [romanzo] in senso di sviluppo poetico del suo linguaggio. Faulkner da una parte e da un’altra Hemingway, il piccolo Saroyan da un suo angolo e alcuni altri piccoli dai loro angoli, sembrava che gli americani avessero un’inclinazione di massa a riscuotere il romanzo dall’intellettualismo e ricondurlo a sottovento della poesia. Lo indicava il gusto loro della ripetizione, la loro baldanza giovanile nel dialogo, il loro procedere ad orecchio della vita e non a riflessione sulla vita.[7]

Tuttavia, il periodo di progettazione dell’antologia coincise con quello in cui la mano del regime diventava sempre più pesante e il controllo più ferreo. Americana andò incontro ad una serie di difficoltà e problematiche riguardanti la pubblicazione e l’uscita del volume, prevista per il ’41, venne posticipata all’anno successivo a causa dei rimaneggiamenti e delle modifiche da apportare obbligatoriamente dopo la verifica della censura fascista. Basti leggere queste poche righe scritte dall’allora ministro della Cultura Popolare Pavolini a Valentino Bompiani:

Gli Stati Uniti sono potenzialmente nostri nemici; il loro Presidente ha tenuto contro il popolo italiano il noto atteggiamento. Non è il momento per usare delle cortesie all’America, nemmeno letterarie. Inoltre l’antologia non farebbe che rinfocolare la ventata di eccessivo entusiasmo per l’ultima letteratura americana: moda che sono risoluto a non incoraggiare.[8]

I successivi cambiamenti previdero la sostituzione della prefazione scritta dallo stesso Vittorini con l’introduzione meno enfatica, anzi addirittura critica, di Emilio Cecchi, che della letteratura americana proponeva un giudizio volontariamente molto limitato – una modesta e secondaria ramificazione della letteratura inglese – e notevolmente negativo verso alcuni autori, come ad esempio Hemingway, e la soppressione delle note iniziali di ogni sezione e degli accompagnamenti fotografici scelti appositamente come cornice dell’antologia. A seguito di queste profonde modifiche e troncamenti l’opera uscì mutila e priva dello slancio primario e originale che ne aveva decretato entusiasticamente la nascita. Pavese fu uno dei pochi ad avere la possibilità di leggere l’edizione integrale pensata e voluta da Vittorini (che uscirà postuma solamente nel 1968, sempre per Bompiani) e ne rimase davvero colpito, tanto da scrivergli:

Tutto il pregio di Americana dipende dalle tue note. In dieci anni dacché sfoglio quella letteratura non ne avevo ancora trovata una sintesi così giusta e illuminante. […] Una storia letteraria vista da un poeta come storia della propria poetica.[9]

Nonostante le numerose tribolazioni e contraddizioni in termine, l’impatto dell’opera sul panorama letterario italiano fu comunque notevole e permise di dare maggior visibilità e una prima necessaria organizzazione critica e storiografica a quella “nuova leggenda” che, nata oltreoceano, si andava imponendo rapidamente, dimostrando che la lontananza geografica non è necessariamente sinonimo di lontananza di senso e di sentimento. Quel “sentire” americano, quel “vivere” americano, mise radici profonde nelle coscienze di quegli intellettuali che così bene seppero accogliere e accrescere tale tesoro, promuovendo un fervore letterario e culturale che, subito dopo la seconda guerra mondiale, anche quando il “mito” americano sembrerà affievolirsi (in realtà, anche negli anni successivi, sino al 1966, Vittorini e Calvino continueranno a promuovere sulle pagine de “Il Politecnico” e de “Il Menabò”, scrittori della nuova generazione come J.D. Salinger e Jack Kerouac), permetterà all’Italia di lasciarsi finalmente alle spalle i grigiori soffocanti e le apatie del ventennio.

Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. […] Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra. […] Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione.[10]


Le note seguenti sono integrate con quelle presenti nella prima parte – già pubblicata sul sito – di questo articolo. Per avere un quadro di riferimento più omogeneo e dettagliato si consiglia di prendere visione anche del lavoro precedente.

[4] D. Fernandez, op. cit.

[5] C. Pavese, op. cit.

[6] D. Fernandez, op. cit.

[7] E. Vittorini, Prefazione a Il Garofano rosso, Mondadori, Milano, 1997.

[8] E. Esposito, Il demone dell’anticipazione. Cultura, letteratura, editoria in Elio Vittorini, Mondadori, Milano, 2009.

[9] G. Chirico (a cura di), Elio Vittorini. Epistolario americano, Lombardi, Palermo, 2002.

[10] C. Pavese, op. cit.


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