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Se c’è un dato davvero insolito da tenere in considerazione quando si tenta di affrontare con volontà storico-critica il panorama culturale e letterario italiano affermatosi – più o meno “ufficialmente” – durante il ventennio fascista è certamente questo: nei primi anni ’30 nel nostro Paese si pubblicava un numero di libri tradotti da lingue straniere assai superiore rispetto a quello di qualsiasi altra nazione d’Europa, a seguire vi erano Germania e Francia. Il fenomeno appare ancor più sorprendente e paradossale se messo contemporaneamente in correlazione con l’altra faccia della medaglia, ossia l’enorme difficoltà del romanzo italiano ad affermarsi nel medesimo periodo oltre i confini nazionali. Tale premessa permette di intuire da subito quanto i problemi legati all’accettazione e alla promulgazione di testi provenienti dall’estero e allo stesso tempo la lentezza e l’incapacità di innestare un vero e radicale consolidamento del mercato libresco autoctono italiano furono temi cocenti e spesso alla base di contrasti e accessi dibattiti durante il ventennio, al centro di numerose, costanti e variegate polemiche all’interno di quel nucleo di rapporti relazionali formato da un lato dall’alta borghesia romana, dai gerarchi fascisti che maggiormente si preoccupavano e occupavano della “fascistizzazione” del popolo italiano e dall’altro dalle case editrici, sempre in bilico tra la necessità di vendere, riempire il mercato e garantirsi utili e profitti atti a incrementare la produttività e il progresso tecnico e fattoriale dell’azienda e il rischio continuo di divieti e di censure da parte degli organi predisposti dal governo dittatoriale, su tutti la Commissione per la bonifica libraria, istituita nel ’38 e presieduta dal MinCulPop. Proprio il sistema editoriale si ritrovò ad essere uno degli interlocutori privilegiati del regime, che necessitava di un controllo minuzioso e dettagliato sui flussi delle traduzioni che venivano poi messe in commercio, all’interno del più ampio processo di sottomissione e asservimento dei media nazionali. Le motivazioni e le strategie che governavano il meccanismo dei “lasciapassare” alle case editrici in sede di pubblicazione di testi stranieri tradotti erano numerose e di varia natura. La preoccupazione maggiore data dal proliferare di autori stranieri, in special modo americani, francesi, inglesi, era da una parte prettamente culturale, dal momento che uno degli aspetti basilari del fascismo era la sua natura fondamentalmente autarchica, basata sulla forzata e artificiosa valorizzazione dell’italianità in tutti gli ambiti del vivere sociale e culturale. D’altra parte vigeva l’urgente bisogno di evitare una concorrenza eccessiva agli autori italiani, la cui scarsa competitività e debolezza in fatto di vendite e successo era recepita sdegnosamente dai grandi fautori dell’Italia fascista, decisa ad imporsi mediaticamente e vogliosa di vanagloriarsi anche a livello internazionale delle proprie intelligenze. Tuttavia, le esigenze e le istanze delle case editrici, soprattutto di quelle più importanti, come Mondadori, Bompiani, Vallecchi, Rizzoli, Sansoni, non rimasero inascoltate e giocarono un fattore decisivo. Il fine ultimo e condiviso da tutti gli attori in gioco era quello di sistematizzare, industrializzare ed estendere economicamente un settore produttivo che in Italia, sin dai suoi esordi ottocenteschi, aveva avuto difficoltà ad affermarsi per svariate e numerose cause sociali, economiche e culturali, in primis l’altissimo tasso di analfabetismo, che comincerà a diminuire in maniera sostanziale solamente a partire dal dopoguerra, negli anni cosiddetti del “boom”. Di conseguenza appariva evidente l’impossibilità di rinunciare drasticamente ad un mercato estero che, a differenza di quello italiano, mostrava chiari segnali d’espansione e di consenso da parte del pubblico dei lettori, capace di trainare verso numeri più elevati e positivi l’intero indotto del settore libresco del nostro Paese. La censura fascista infatti, il cui organo responsabile era l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, divenuto poi sottosegretariato e infine Ministero per la Stampa e Propaganda nel ‘35 (ribattezzato nel ’37 Ministero della Cultura Popolare), durante gli anni ‘20 non agì mai secondo regole e strategie eccessivamente prepotenti o brutali, spesso priva di un carattere sistematico e di un piano d’intervento organico. I dettami censori furono caratterizzati da un crescente inasprimento solamente durante i primi anni del decennio successivo, a seguito di una politica nazionale sempre più marcatamente provinciale e campanilistica e al peggioramento dei rapporti internazionali con Inghilterra e Stati Uniti occorso dopo le conquiste coloniali in Africa. Nel biennio ’33-’34 fu avviata una vera e propria campagna generalista contro l’importazione di prodotti stranieri, contro le traduzioni e gli editori che le finanziavano prima e le pubblicavano poi. Di queste opere veniva accusata non solo la pericolosità, la corruttibilità e il rischio d’inquinamento dell’integrità morale e culturale italiana, ma anche la veste linguistica, spesso distante o totalmente opposta agli standard formali e classici della lingua voluta e imposta dal regime.
Il fine ultimo e condiviso da tutti gli attori in gioco era quello di sistematizzare, industrializzare ed estendere economicamente un settore produttivo che in Italia, sin dai suoi esordi ottocenteschi, aveva avuto difficoltà ad affermarsi per svariate e numerose cause sociali, economiche e culturali, in primis l’altissimo tasso di analfabetismo, che comincerà a diminuire in maniera sostanziale solamente a partire dal dopoguerra, negli anni cosiddetti del “boom”.
Il mondo dell’editoria seppe però reggere all’urto, giustificando furbescamente le proprie scelte di catalogo e di collana estere come finalizzate in primis a sovvenzionare il mercato interno italico e a garantire diritti d’autore maggiormente cospicui agli autori italiani, dato che i diritti sulle traduzioni erano economicamente molto più accessibili e, in secundis, necessarie a bloccare i crescenti flussi di importazione di libri stranieri non tradotti, il più delle volte francesi ed inglesi, moda diffusa soprattutto fra i ceti altolocati. Una delle soluzioni maggiormente adottate dagli addetti ai lavori (autori, editori, curatori, traduttori) fu quella dell’autocensura, soluzione gradita e spesso consigliata dal Ministero stesso, attraverso la quale si puntava a preservare la pubblicazione delle opere prese sotto esame – evitando così spese insostenibili e buchi programmatici nel catalogo –, modificandole, tagliandole, privandole di intere parti e capitoli, “italianizzandole” nei nomi e nella topografia, con l’intento di rendere ogni testo “politicamente corretto”. Si era inevitabilmente costretti a dei compromessi – più o meno pesanti ai fini della qualità artistica e letteraria del prodotto finale – per portare avanti il lavoro editoriale e allo stesso tempo soddisfare il controllo censorio. Quest’ultimo si fece sempre più capillare, ostinato e cruento intorno alla fine degli anni ’30, quando, con l’avvicinamento sia politico che ideologico dell’Italia mussoliniana alla Germania nazista, anche i provvedimenti culturali si esacerbarono. L’introduzione delle leggi razziali nel ’38 impose l’allontanamento da ogni casa editrice di collaboratori e consulenti di origine ebrea, nonché l’espulsione dal catalogo di tutti gli autori ebrei italiani e stranieri. Le ispezioni e i provvedimenti persero dunque quel carattere di flessibilità e disorganicità che le aveva sinora caratterizzate e si fecero sempre più serrate, così come i divieti e le soppressioni di numerose opere – molto frequentemente già in circolazione – che, dovendo essere ritirate dal mercato, provocarono numerose e ingenti perdite finanziarie ad alcune tra le maggiori case editrici.
L’introduzione delle leggi razziali nel ’38 impose l’allontanamento da ogni casa editrice di collaboratori e consulenti di origine ebrea, nonché l’espulsione dal catalogo di tutti gli autori ebrei italiani e stranieri.
La figura professionale che maggiormente risentì di questo continuo e ondivago braccio di ferro durato più di vent’anni fu quella del traduttore, costantemente minacciato dai dettami delle case editrici, ma che mal si adeguava a tali costrizioni lavorative e restringimenti autoriali. È imprescindibile ovviamente fare delle distinzioni all’interno della stessa categoria, poiché, se da un parte troviamo un folto gruppo di traduttori mestieranti, che accettarono silenziosamente per quieto vivere gli ordini e i contrordini, dall’altra vi erano invece diversi scrittori/traduttori di indiscusso talento letterario e pervasi da un profonda sensibilità artistica, il cui incontro e il cui intenso dialogo con la letteratura straniera rappresentò da subito molto più che una mera trasposizione linguistica nel proprio idioma di prose e poesie, e che quindi digerirono faticosamente le eccessive ingerenze provenienti dall’alto sempre incombenti sul loro lavoro editoriale e non si fecero troppe premure nel denunciarle. Tra questi non possiamo non citare come modelli paradigmatici Cesare Pavese ed Elio Vittorini, per i quali, in modi e forme differenti, la scoperta e la valorizzazione della letteratura angloamericana significò un’apertura visuale, un accrescimento esperienziale e una proficua maturazione non solo letteraria e stilistica, ma soprattutto civile, culturale e ideologica nei confronti di una nazione che in quegli anni si preparava a diventare egemone nel mondo. Come scrisse lo stesso Pavese nel’47:
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere “la speranza del mondo”, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale.[1]
Per questi scrittori, tra cui bisogna ricordare almeno anche Mario Soldati e in chiave minore Eugenio Montale, l’esaltazione di una estesa generazione di colleghi d’oltremanica che comprendeva al suo interno Steinbeck, Caldwell, Faulkner, Hemingway, Stein, Saroyan, Lewis, e guardando più addietro anche Melville e Whitman, non fu minimamente legata a tendenze esterofile passeggere o a mode estemporanee del gusto, come tendevano a sostenere raffinati critici di chiara matrice classicista ed umanistica, come Emilio Cecchi o Mario Praz, ma anzi ad una forte e viscerale interiorizzazione di quel nuovo modo di intendere e vivere la letteratura, ad una presa di consapevolezza umana, culturale e valoriale che allargava e stravolgeva notevolmente i confini di un certo modus operandi caratteristico del romanzo – inteso come struttura formale e veicolo di una storia, di una narrazione, a volte di una morale – italico ed europeo in generale, oramai considerato stantio, monotono e anacronistico, la cui pregnanza artistica era ora sentita chiaramente insufficiente e superata. Prendere a modello l’irruenta e primigenia America del romanzo non significava soltanto alimentare un’opposizione ideologica al fascismo, ma soprattutto capire come tradurre in parole la nuova condizione esistenziale dell’uomo attraverso un linguaggio e un tono diverso, sperimentale, moderno, futuro. Prosegue Pavese:
Ciascuno di noi frequentò e amò d’amore la letteratura di un popolo, di una società lontana, e ne parlò, e ne tradusse, se ne fece una patria ideale. Tutto ciò in linguaggio fascista si chiamava esterofilia. I più miti ci accusavano di vanità esibizionistica e di fatuo esotismo, i più austeri dicevano che noi cercavamo nei gusti e nei modelli d’oltreoceano e d’oltralpe uno sfogo alla nostra indisciplina sociale e sessuale. Naturalmente non potevamo ammettere che laggiù noi cercassimo un calore umano che l’Italia ufficiale non ci dava. Meno ancora, che cercassimo semplicemente noi stessi. Invece fu proprio così. Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi venne a noi la prima certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile, in un ordine nuovo, potevano e dovevano trasfigurarsi in una nuova leggenda dell’uomo.[2]
Si trattava dunque di una scoperta e di una ricerca innanzitutto umana prima che contenutistica e stilistica. Molte personalità vogliose, interessate, mai sazie di novità e conoscenza, sorde alle prese di posizione grette e artificialmente costruite del regime e dell’establishment culturale dell’epoca si gettarono con passione e profitto nell’assimilazione di un universo letterario totalmente nuovo ed ignoto, rischiando, edulcorando e spesso esagerando i giudizi positivi e le lodi, ma scoprendo infine una vicinanza insperata nelle fisionomie intellettuali ed artistiche di scrittori lontani e fino ad allora praticamente semisconosciuti. Come fa notare Dominique Fernandez:
Si rivelerà subito che i fautori della supremazia culturale europea, gli avversari del mito, provengono dalle più antiche fortezze della cultura italiana, Cecchi da Firenze e Praz da Roma. I creatori del mito, invece, provengono dalle regioni periferiche: Pavese dal Piemonte e Vittorini dalla Sicilia. […] Tutto si svolge come se, a mano a mano che ci si allontana dalle cittadelle della tradizione umanistica, si diventi meno prigionieri di abitudini scolastiche, più aperti alle avventure, più avidi di orizzonti nuovi.[3]
[1] C. Pavese, Letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1968.
[2] Ibidem.
[3] D. Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 1969.
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