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Qualche volta la letteratura ha a che fare con gli specchi, sono soprattutto i grandi scrittori ad avere a che fare con gli specchi, Vargas Llosa è uno di questi. Innovatore, sperimentatore, autore che ha profondamente modificato le radici stesse della forma romanzo, Vargas Llosa ha scritto capolavori come La città e i cani, La Casa Verde, Conversazione nella “Catedral”, considerati all’unanimità pietre miliari inamovibili della letteratura novecentesca e che gli sono valsi il premio Nobel per la letteratura nel 2010. A prescindere dai temi, dagli argomenti, dalle trame delle sue opere, ciò che più sconvolge e affascina dello scrittore peruviano è la prosa, la tecnica narrativa, le modalità espressive di costruzione del racconto. La prosa di Vargas Llosa non è mai cerebrale, né tesa verso preziosismi puramente avanguardistici, sebbene sia frutto dichiarato e maturo del modernismo di inizio novecento e abbia alle spalle le esperienze radicalmente innovatrici di tutta la grande letteratura europea della prima metà del secolo. Essa non s’invaghisce di alcun intellettualismo autocompiacente, come invece fanno certe sperimentazioni di Robbe-Grillet e del Nouveau roman; si fa ostica unicamente per necessità fisiologica, perché la trama che l’attraversa è ricca e densa e piena di angolature visive e prospettiche che si affacciano e si ritirano per prorompere poi in superficie a un tempo disarticolate e a un tempo sincroniche. Vargas Llosa apprende da Flaubert il rigore e la serietà narrativa, da Thomas Mann la vocazione quantitativa del romanzo, la sua voracità totalizzante, da Faulkner che è la forma a determinare la grandezza delle storie che si raccontano (B. Arpaia, Il grande architetto in M. Vargas Llosa, Romanzi, vol. 1, Milano, Mondadori, 2017). La sua è una ricerca formale che si fa ricerca espressiva. In Conversazione nella “Catedral”, l’opera che gli è costata più tempo e fatica, il narratore è fluido, fuoriesce repentinamente dal tessuto scrittorio per poi inabissarsi di nuovo con altrettanta rapidità. Diventa io, tu, egli, non c’è gabbia diegetica che regga alle serpentine studiatamente impulsive, ritmiche del narrato. Onnisciente a metà, si perde nelle pieghe, negli interstizi della struttura mobile e flessibile. Dall’abbraccio delle intricate costellazioni di rimandi e abbagli, anticipazioni e rovesciamenti, si producono delle sottilissime intercapedini e il senso delle frasi o dei periodi ci scompare dentro. I suoi personaggi prendono parola come testimoni di una storia già vissuta e già raccontata, già stata reale e già stata finzione, e parlano a noi, a loro stessi e anche a lui, all’autore Vargas Llosa, che continuamente scrive e viene scritto, e la parola esce potenziata dall’incontro fortuito con questi innumerevoli interlocutori girevoli. Il narratore sembra scivolare tra loro sinuosamente, come se stesse passeggiando con passo svelto ma sicuro in un salone pieno di ballerini di valzer che lo sfiorano delicatamente senza neanche rendersene conto. È dalla collisione improvvisa di dialoghi logicamente non combaciabili, dall’accostamento di scenari discordanti e personaggi irrisolti che esplodono i significati più inattesi, più profondi, squarci epifanici di senso, capaci di gettare un fascio di luce sugli antri rimasti oscuri. Discorso indiretto libero, flusso di coscienza, analessi, ogni tecnica s’innesta sull’altra ispessendone la portata e il valore. La «spazializzazione del tempo» (B. Arpaia, Il grande architetto) permette a Vargas Llosa di sovrapporre, intersecare in una stessa sequenza tematica piani spaziali e temporali diversi senza però innescare spinte centrifughe e sfilaccianti, mai rinunciando all’unitarietà globale della narrazione. La stratificazione multipla di livelli narrativi ben connotati dà vita ad inaspettate e fulminanti riemersioni dialogiche, ad ellissi che si credono illusoriamente irrecuperabili. Le infinite combinazioni e concatenazioni – in-finite perché impossibilitate ontologicamente ad essere ricomposte in maniera chiara e lineare nella mente del lettore, a ricevere una sistematizzazione coerente nel loro farsi e disfarsi – non creano vaghezza o aporie perché supportate da una ben consapevole capacità organizzativa della materia narrativa, che non scade mai nello schematismo prestabilito, ripetuto, ossessivo. Vargas Llosa mostra di possedere una tecnica elaborativa talmente interiorizzata e fatta propria da conoscere persino le modalità attraverso cui sorprendersi, vivificarsi, rivitalizzarsi ad ogni pagina. Nonostante la selezione irrequieta di materiali e voci, il febbricitante lavorio di collage e osmosi, non si ha mai l’impressione di incappare in qualche vuoto costitutivo creatosi a scapito della scrittura o del tessuto. Rinunciando definitivamente a una logica della chiusura per abbracciare invece quella dei “vasi comunicanti”, lo scrittore peruviano esplora fino al massimo grado le potenzialità intrinseche del linguaggio. Conversazione nella “Catedral”, tela di espressionismo astratto, a volte più geometrico, a volte più informale, è par excellence il romanzo totale della seconda metà del XX secolo.
È dalla collisione improvvisa di dialoghi logicamente non combaciabili, dall’accostamento di scenari discordanti e personaggi irrisolti che esplodono i significati più inattesi, più profondi, squarci epifanici di senso, capaci di gettare un fascio di luce sugli antri rimasti oscuri
Vargas Llosa non rischia mai l’autoreferenzialità, né cede alla vanità e all’auto-sublimazione artistica. La sua scrittura non interroga se stessa, ma le possibilità strutturali e le disponibilità eventuali del romanzo come complesso formale, contenuto e veicolo artistico. Lo scrittore peruviano ha fiducia nella potenza creativa, narrativa e comunicativa della forma romanzo e tenta di valorizzarne gli inesausti talenti, non di metterla in crisi, di ridurla quasi al silenzio, al balbettio stentato, come faranno invece altri. La sua ricerca autoriale mira all’esplosione costruttiva delle capacità che sottendono il romanzo, non ne decreta la fine o l’anacronismo. È presente in lui un forte desiderio di rinnovamento e sperimentalismo, che però non si astrae mai dalla pienezza narrativa e contenutistica, dalla ricchezza della trama. Fattori a cui rinunciano invece troppo facilmente diverse esperienze neoavanguardistiche degli anni ’50, ’60 e ’70, condannandosi ad un volontario depotenziamento. Vargas Llosa non vuole smettere di narrare né tantomeno cedere al rifiuto del racconto, alla mefistofelica tentazione in cui cadono irretiti molti romanzieri a lui contemporanei; egli continua a difendere la portata anche sentimentale e civile del fatto romanzesco. Le sue prime opere sono pervase infatti da una costante tensione etica che si propaga nel sottobosco delle pagine e dei capitoli. Non rinuncia dunque alla storia, ma anzi, conscio della limitatezza della storia veicolata come unità compatta a sé stante, compiuta e perfetta, ne reclama la scissione, la relativizzazione. Una storia che diventa tante storie, tutte destinate a passare attraverso il filtro prismatico dell’autore, della penna dell’autore, della sua scrittura, abile a sfaccettare il sostrato unico e unitario del narrato per arricchirlo, trasformarlo, renderlo altro da sé. La battaglia per la palingenesi e per lo sviluppo del romanzo come forma artistica si combatte all’interno del romanzo stesso, cercando di mutarne interiormente le architetture e le geometrie, lavorando nell’intimo dei suoi processi, e non tentando di traghettare il romanzo verso altre modalità narrative ed espressive, seguendo traiettorie ibride che eludono il problema di fondo senza davvero affrontarlo, fornendo risposte estemporanee non combacianti alla reale domanda che ogni grande scrittore si pone all’inizio di una nuova opera. L’esigenza di rinnovamento del romanzo richiede una ricerca minuziosa, approfondita, bisognosa di tempo e della giusta decantazione, che si dipana in maniera via via più omogenea lungo l’intero arco produttivo di un autore, con maggiore forza e incidenza in determinati periodi, nel caso specifico di Vargas Llosa nella prima parte della sua carriera letteraria. A nulla valgono tentativi laboratoriali fugaci e vacui che interessano magari un romanzo o due, perché alla base vi deve essere sempre un pensiero durevole, una riflessione organica precisamente letteraria e dunque anche estetica viva e in divenire, che non tralasci mai né marginalizzi il ruolo sociale e civile della letteratura tout court come istituzione storica e storicamente influente sul progresso del genere umano. La letteratura qualche volta ha a che fare con gli specchi perché è essa stessa specchio e sulla sua superficie trova rifugio l’immagine di una realtà che è già di nuovo altrove, in attesa di essere scovata.
Immagine: The Repast of the Lion, 1907 / Henri Rousseau (Il Doganiere) (MET collection OA)