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Pasolini reagisce con tutti i mezzi espressivi a disposizione, rifondando in senso letterario (e liricizzando) l’uomo al suo iniziale stadio naturale, prima ancora di poter essere infettato e barbarizzato dalla società: la scelta di far emergere gli emarginati e gli “scartati” non si ferma, infatti, solo al piano narrativo, ma investe completamente anche la dimensione linguistica: l’assunzione del “parlato” romanesco, anche nel suo strato più triviale, grossolano e non purificato è “un’imperitura dichiarazione d’amore” (G.Contini) nei confronti del reale, dei suoi personaggi così genuini e così umani, per troppo tempo colpevolmente messi a tacere. Siamo di fronte ad un uso “verghiano” del dialetto: il narratore sfrutta tutte le possibilità espressive offerte dallo strumento letterario per regredire e scomparire, per silenziare il suo punto di vista e restituire, in chiaro intento documentario, la totalità della vita psichica, emotiva ed espressiva dei suoi personaggi. Sul piano stilistico, allora, si noti l’uso del discorso indiretto libero, che, non depurato, tratteggia fedelmente la vita interiore dei borgatari nella sua più immediata forma espressiva: l’adozione del turpiloquio denigratorio, della parolaccia smaccata e dell’insulto, dei vividi moduli del parlato non ha intento discriminatorio, ma, al contrario, diventa la cifra tangibile della passione umanitaria, dell’immedesimazione accorata, della compartecipazione emotiva dell’autore alla vita dei suoi amati poveri. Non c’è più filtro, né distanza conoscitiva e autoritaria tra narratore e personaggi. E per abbattere la distanza sceglie uno sguardo non obbiettivo e distaccato, ma interno ed appassionato, completamente mimetizzato nei suoi protagonisti, dimenticando una visione super partes moraleggiante e lasciando che i soprusi e le ingiustizie sociali emergano in modo autoeloquente. Pasolini li capisce, li accarezza, si immette nella loro pelle e può farlo perché, forse, entrambi sono vittime di un unico (e opposto) disagio esistenziale e morale, di un grido di dolore contro l’indifferenza della società e delle sue istituzioni. Siamo, dunque, di fronte ad un processo di transito (probabilmente) inconscio dell’autore nel narrato senza (significativi) precedenti nella storia letteraria italiana e di grande intento etico-politico: dare a chi è rimasto in silenzio non una (semplice) voce, ma esattamente la sua, i suoi desideri e i suoi patimenti. Per dirla con Elio Vittorini: «Pasolini presenta, travestiti da realistici, interessi filologici». Preliminare a tutto ciò è infatti un grande studio documentario del parlato, un profondo interesse verso il dialetto locale, verso gli usi più rari e vividi della lingua popolare, debitamente segnalati anche dall’inedito Glossario di confronto tra dialetto romanesco e lingua italiana a fine romanzo. La scelta linguistica, tra l’altro, consente all’autore di non imporre mai, a livello stilistico prima ancora che a livello contenutistico, la propria visione intellettuale: si presenta solo come trascrittore e riproduttore della lingua di una precisa realtà in un preciso momento: «Con il senno di poi si può dire che a far scandalo non fu tanto il lessico forte del libro, ma l’idea stessa di rendere protagonista, con il suo dialetto e la sua cultura, il popolo delle borgate. La dignità letteraria che veniva conferita alla parte più bassa e disonorevole della nostra società, offendeva i benpensanti e l’idea che essi avevano della letteratura» (Vincenzo Cerami).
La scelta linguistica, tra l’altro, consente all’autore di non imporre mai, a livello stilistico prima ancora che a livello contenutistico, la propria visione intellettuale: si presenta solo come trascrittore e riproduttore della lingua di una precisa realtà in un preciso momento
Eppure, pur arrivando al momento culminante di identificazione tra punto di vista d’autore e punto di vista dei personaggi narrati, il tessuto narrativo non riesce a disperdere un profondo sottobosco autobiografico, il personalissimo vissuto dell’autore con velate allusioni ad irrisolti processi psichici interiori si fa testimonianza appena percepibile di un processo ininterrotto di auto-confessione, uno zampillio interiore, un’esigenza incancellabile e continua di catarsi. Lo stesso Pasolini si sente ed è (stato) uno scarto, un rifiuto non accettato da un certo prototipo di società, profondamente moralista ed ipocrita. Questo stesso universo emotivo e relazionale che sta fiorendo, che si spargerà e dilagherà nel cinema è (e sarà sempre) violentemente represso da rigidi dogmatismi valoriali: nel 1950 egli stesso è escluso dalla sua comunità friulana, paga la naturalità dei suoi florilegi sessuali ed è costretto a catapultarsi a Roma. E la Roma borgatara, così dispersiva e caotica, così grossolana, sguaiata e caciarona, diventa paradossalmente un nido tiepido e tranquillo per ridare significato alla propria sfera emotiva, per ricostruire la propria genuinità relazionale e il proprio spazio di libertà sessuale che l’oscurantismo di una certa società rurale (più in senso etico che geografico) non ha accettato. Roma diventa un mito scrostato, un sogno fumoso ed un bisogno concreto per ridefinire liberamente il proprio universo psichico, per sperare, insomma, che la propria omosessualità e la totalità della propria vita emotiva sia accettata senza pregiudizio: in questo immenso lavoro etnografico e documentario di denuncia sociale che è “Ragazzi di vita”, affiorano, infatti, rapporti sessuali precari, improvvisati e amorali vissuti dai giovani, spesso omosessuali e resi con una immediatezza fisica e ormonale di grande impatto espressivo, ma sempre celati, protetti dal buio notturno e consumati in squallidi angoli di periferia. Pasolini trasferisce letterariamente ciò che lo ha condannato all’emarginazione e non vi rinuncia assolutamente perché lì avverte il vitale, l’immediatezza primordiale della vita incorrotta nella sua unione più genuina e fisica. In questo contesto anche l’elemento femminile è degradato, marginalizzato, minimizzato a strumento di piacere, diventa vittima di sé stesso, della propria banale corporeità ed incapace di emanciparsene coscientemente. Diventa di contrasto indirettamente evidente l’inadeguatezza delle varie istituzioni sociali, tra cui quella familiare, a contrastare la spinta degenerativa della società esterna, la sua congenita incapacità di assolvere pienamente al compito educativo, di offrire modelli virtuosi e protezione ai ragazzi che si affacciano alla complessità del reale, in cui sono violentemente privi di qualsiasi rotta da seguire: le madri sono figure tragiche o infantili, vittime di sé stesse, inadeguate o disperate, incapaci di unire il nucleo familiare, di provvedere al sostentamento basilare dei figli, che sono dunque costretti quotidianamente all’illegalità per riconquistarsi e ridiscutere con l’ambiente sociale il proprio spazio di sopravvivenza. I padri, ubriaconi o perdigiorno, sono ancora più assenti e non sanno offrirsi come riferimento per i figli: sono completamente assenti modelli genitoriali positivi. A ben vedere, in questa drammatica constatazione Pasolini trasferisce un altro germe di conflittualità interiore, a lungo represso: è il suo rapporto con il padre, eternamente problematico, sbilanciato a favore dell’elemento materno, cui sempre riverserà tutta la sua dose di affettività, di autenticità e chiederà sempre protezione. Se nella vita privata Pasolini riuscirà a trasferire e a risolvere questa conflittualità aggrappandosi a lei come unico riferimento, Riccetto e i suoi amici, invece, sono completamente spaesati, senza nidi affettivi e protettivi, per cui cercano continuamente sostituzioni relazionali, trovandole nelle prostitute e nelle loro fugaci attenzioni, che non si rivelano pienamente soddisfacenti. Neanche l’amicizia è un pilastro a cui i giovani possono sostenersi: in ogni legame manca autenticità, reale affetto, tale da durare nel tempo; prevale un uso strumentale e temporaneo della relazione: la compagnia se c’è deve conseguire un bene o piacere immediato, che, una volta ottenuto, ne fa crollare la sua stessa necessità. A livello relazionale prevale quindi un senso di slegamento, di cinica indifferenza, che pervade ogni generazione delle borgate e che viene assorbita come unica via relazionale possibile dai ragazzi di vita: è un modello comportale unico, dettato dallo spirito di autoconservazione e di difesa individuale di fronte alle privazioni socio-economiche esterne.
Pasolini trasferisce letterariamente ciò che lo ha condannato all’emarginazione e non vi rinuncia assolutamente perché lì avverte il vitale, l’immediatezza primordiale della vita incorrotta nella sua unione più genuina e fisica
A livello antropologico l’adolescenza rappresenta un momento di transiti negati, di possibilità inespresse, di slanci frustrati da una sovrastruttura sociale che confina la gioventù ad un dato luogo, impedendo sia una piena emancipazione umana e spirituale, sia soprattutto la possibilità di progettarla, di svincolarsi coscientemente e attivamente dalle bassezze e dallo squallore del presente. Se la società non offre strumenti validi per la conoscenza del reale e per la piena collocazione dell’Io sociale nella realtà, se non offre modelli alternativi a quelli malavitosi e criminosi, se tutte le istituzioni, a tutti i livelli, sono completamente assenti (lo Stato verso i giovani “esiste” solo nella brutalità repressiva delle forze dell’ordine che sventolano lo spettro della galera come unico baluardo contro l’illegalità, e mai nella sua quotidiana missione educativa, pedagogica, didattica ed umanitaria: non è mai erogatore di diritti basilari, ma sempre astratto simbolo di negazione degli stessi), allora tutto il mondo sociale possibile sarà confinato esattamente alle squallide e anonime fanghiglie di Portonaccio, Ponte Mammolo, Tiburtina, Monteverde vecchio; passando da un incontro all’altro, da una disillusione all’altra, il brulichio quotidiano ristagnerà sempre in questi angoli polverosi di degrado; le uniche spinte centrifughe tradiscono sempre, sin dal primo momento, un ritorno all’origine, ma anche un moto diretto verso luoghi alternativi dove recuperare una piena armonia con l’elemento naturale, un contatto primigenio (perché preindustriale) con la vita: i fiumi sono luoghi perfidi, che generano al tempo stesso fascino e repulsione, che accolgono in sé il germe della negazione della vita, di una prospettiva di morte spaventosa quanto inascoltata, perché anche quella natura fuggente è stata invasa e definitivamente contaminata dall’industrialismo, dalla selvaggia speculazione edilizia che ha divorato le colline dei dintorni di Roma e rovina ora con i suoi liquami anche la limpidezza (etico-naturale) originaria dei fiumi. Dunque la Roma gloriosa e monumentale qui non c’è, ma solo il suo squallido controcanto: è un calderone di rifiuti, di scarti polverosi, palazzoni sovraffollati e pronti a sbriciolarsi, strade dove si fa commercio di tutto, e la vita stessa, di riflesso, si fa commercio di sé. La povertà spirituale e materiale (l’una subita inconsciamente, l’altra condizione stessa di nascita) viene vista come immanenza della vita stessa, unica e perpetua prospettiva esistenziale; il denaro è semplice e immediato strumento di conseguimento di piacere, il lavoro quotidiano è inutile e massacrante sacrificio psico-fisico, e la giovinezza, che potrebbe essere in potenza così ridente e sfacciata, può e deve sottrarsi a tutto ciò con azioni alternative, soprattutto se rischiose e illegali, come furti e piccole rapine o giochi d’azzardo su cui trasferire speranze (frustrate) di un’improvvisa e miracolosa ricchezza.
La Roma gloriosa e monumentale qui non c’è, ma solo il suo squallido controcanto: è un calderone di rifiuti, di scarti polverosi, palazzoni sovraffollati e pronti a sbriciolarsi, strade dove si fa commercio di tutto, e la vita stessa, di riflesso, si fa commercio di sé
“L’emblema è una vecchia e sconquassata fabbricona di Monteverde Vecchio, il Ferrobedò (Ferro Beton), intorno alla quale i bambini diventano ragazzi di vita” (Vincenzo Cerami), attorno alla quale si compie tutta una particolare serie di riti iniziatici, si tentano infruttuosi e sgraziati contatti con il mondo femminile, si cerca di perpetuare l’innocenza dell’infanzia con semplici giochi collettivi, si esplorano subito le derive più scabrose della sessualità, si recide perfino brutalmente e cruentemente il laccio primigenio con il candore della fanciullezza grazie a grotteschi riti mortiferi derivati da un’insospettabile violenza gratuita. Per cui lo spettrale capannone diventa simbolo del trapasso generazionale dei fanciulli, slanciati distruttivamente verso la conquista di un algido cinismo e la perdita di affetti reali, cioè verso la progressiva e definitiva disfatta della vita comunitaria e della generosità collettiva. A livello narrativo poi simbolo perfetto è il culmine tragico che conclude il romanzo: l’annegamento di Genesio. Il finale segnato dall’uccisione di un bambino nell’indifferenza collettiva diventa simbolo e cifra emotiva della condanna politica e sociale, dell’anatema contro un sistema valoriale e ideologico che si è ramificato nella società italiana del dopoguerra: la progressiva emarginazione di una fetta sempre più consistente della popolazione congenitamente esclusa da beni e risorse di sostentamento primario e la conseguente scelta militante di parteggiare per gli ultimi, gli esclusi, diventeranno patrimonio tematico ricorrente in (quasi) tutta l’esperienza artistica e intellettuale di Pier Paolo Pasolini, sia in ambito letterario (si pensi a “Una vita violenta” e all’incompiuto “Il rio della grana”, entrato a far parte di “Alì dagli occhi azzurri”, 1965) sia cinematografico, con lo straordinario affresco borgataro all’inizio degli anni Sessanta di “Accattone” prima (dove ritorna la figura di un giovane sottoproletario delle borgate romane e dei suoi espedienti quotidiani per sopravvivere) e di “Mamma Roma” che, come il precedente, si muove sullo sfondo della periferia romana, in cui l’umanità disagiata cerca quotidiano riscatto della propria condizione sociale.
Davide Maria Zazzini è nato il 14 aprile 1996 a Pescara. Da quattro anni studia a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne e continua a studiare ora Filologia Moderna. Ama i Pink Floyd, i romanzi di Gabriel García Márquez e Calvino, le poesie di Montale, Gatto, Neruda, Prévert e Catullo. Ma il cinema è la sua passione maggiore: soprattutto Fellini, Bertolucci, Forman e Scorsese.
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