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“Ragazzi di vita” è un romanzo scritto da Pier Paolo Pasolini e pubblicato da Garzanti nel 1955: storia di transizione di un gruppo di giovinetti scanzonati della periferia borgatara romana dall’adolescenza fino alla primissima maturità in un arco storico che va dall’immediato dopoguerra (il capitolo iniziale è collocato, infatti, nel torrenziale e drammatico Luglio 1943) alla fase di ricostruzione urbanistica in senso capitalistico-industriale che vive Roma dei primissimi anni Cinquanta. Senza dubbio un fotogramma sociale di forte valore testamentario, un’opera a fortissima vocazione umanitaria, ostinatamente militante e svincolata dal senso di indifferenza colpevole della classe dirigente borghese-plutocrate italiana, il tutto incastonato in un telaio narrativo potente, lisergico, affascinante, divisivo ed insieme tenerissimo, filantropico, affratellante grazie alla scelta di un’inedita prospettiva narrativa: si rinuncia completamente ad un punto di vista privilegiato, alla Roma monumentale ed opulenta di uomini di potere, papi e cardinali, colletti bianchi e moralisti borghesi, e si scende nella quotidiana fatica esistenziale degli ultimi, degli esclusi dalla Storia, degli schiacciati, dei sommersi, degli indesiderati, nel più caotico e spersonalizzante sottoproletariato urbano. I protagonisti? Alveari di ragazzini ancora acerbi e spaesati, senza modelli cui ispirarsi, che “sciamano” nella periferia tra precoci gozzoviglie di osteria e nottambuli amori di fortuna con prostitute, tra furtarelli, bagni iniziatici nelle rapide del Tevere e astute piraterie di sopravvivenza quotidiana, pur sempre cercando una via, un guado per “transitare” definitivamente nella vita adulta. Chiaramente un “J’accuse” così sfacciatamente provocatorio di un giovane professore all’esordio narrativo sulla scena nazionale, non può lasciare indifferente una certa “Italietta” perbenista e bacchettona che si è appena lasciata alle spalle le privazioni e le sofferenze della guerra: nel 1955, anno di pubblicazione del “libello”, il successo di pubblico è immediato e travolgente, ma arriva anche la denuncia in sede legale per “oltraggio al pudore” che il giovane scrittore accoglierà con profondo avvilimento (così si sfogherà in intimità con il suo maestro poetico, morale e spirituale Giuseppe Ungaretti: ”Questo processo mi ha così umiliato e depresso in questi mesi che non sono più riuscito a lavorare al nuovo libro”). Nell’occhio del ciclone, infatti, finisce un linguaggio oltremodo licenzioso, un corrosivo ed inaspettato realismo linguistico senza filtri, oltre che la scelta di trattare temi scomodi e audaci come la prostituzione maschile minorile, considerata dai ragazzi come unica ed estrema speranza di sopravvivenza. E allora critiche impietose piovono da ogni ambiente culturale, al di là degli schieramenti ideologici. Si può intravedere già in atto quella costante opera di demolizione e denigrazione di larga parte dell’opinione pubblica che lo accompagnerà fino a quella maledetta notte del novembre 1975. Anche la critica letteraria è spaccata: Alberto Asor Rosa nel saggio “Scrittori e popolo” (Samonà e Savelli,1965) si dimostra inclemente con il romanziere bolognese, dello stessa opinione è anche Carlo Salinari (cui Pasolini risponde prontamente dalle colonne della neonata “Officina”); ma decisiva in sede giudiziaria è la militanza di un vasto consesso di letterati che si rivelerà poi, nei decenni successi, perpetuo scudo contro gli infuocati strali rivolti verso l’attività intellettuale di Pasolini: le testimonianze di Emilio Cecchi, Gianfranco Contini (che già intuisce l’innovazione sperimentale del linguaggio e che non tarderà ad mostrare la sua ammirazione per le scelte linguistico-stilistiche anche qualche anno più tardi, quando Pasolini pubblicherà la silloge “Le ceneri di Gramsci”, ed. Garzanti 1957), Giuseppe De Robertis, Anna Banti, Giancarlo Vigorelli, Giuseppe Ungaretti («Ho letto Ragazzi di vita, e stimo sia uno dei migliori libri di prosa narrativa apparsi in questi anni in Italia.”), ma soprattutto quella di Carlo Bo (che da intellettuale cattolico, ne celebrerà lo slancio religioso “alla pietà verso i poveri ed i diseredati”). Tutte testimonianze decisive per le sorti del processo.Così, nell’estate dello stesso anno, arriverà l’assoluzione piena del Tribunale di Milano e PPP si lascerà alle spalle la prima di una (infinita) serie di umiliazioni pubbliche: Riccetto con i suoi compagni può ancora “scorrazzare” tra tutte le biblioteche d’Italia.
Senza dubbio un fotogramma sociale di forte valore testamentario, un’opera a fortissima vocazione umanitaria, ostinatamente militante e svincolata dal senso di indifferenza colpevole della classe dirigente borghese-plutocrate italiana, il tutto incastonato in un telaio narrativo potente, lisergico, affascinante, divisivo ed insieme tenerissimo, filantropico, affratellante
Per diretta ammissione di Pasolini, “Ragazzi di vita” è “un documentario” ed insieme una indelebile “testimonianza di due anni a Roma”. Ma la Roma qui tratteggiata è inedita e straniante: sarebbe vano ricercare tracce di quel decadentismo borghese di dannunziana memoria, della sua sfacciata opulenza, del sentimentalismo e patetismo aristocratico che avevano spadroneggiato in buona parte della letteratura primonovecentesca: qui siamo scaraventati in una Roma desolata e spelacchiata, stiracchiata tra prati sconfinati e fanghiglie, tra fiumiciattoli torbidi e casupole sgangherate, tra botteghe chiassose e capannoni abbandonati. È la piena periferia, dimenticata dalle istituzioni ma frequentata in lungo e in largo dal romanziere: non si abita più in rifiniti e silenziosi villini signorili ma in chiassosi palazzoni stipati abusivamente fino all’inverosimile, ci si ammassa tra spiazzi collinari e grandi industrie alle porte dell’Urbe. Qui si accalcano e si mischiano famiglie nullatenenti e semianalfabete, senzatetto e perdigiorno, anziani e loschi truffatori. Insomma, siamo in uno dei tanti ed infiniti non-luoghi della moderna civiltà dei consumi in cui la marginalità non è solo (e semplicemente) confinamento geografico, ma anche (e soprattutto) una condizione interiore, esistenziale e morale di un’intera generazione imbrigliata nella sua svilente ed immeritata povertà, esclusa sistematicamente dall’opulento benessere consumistico che si va lentamente ramificando nel dopoguerra, e colpevolmente ignorata dall’intera classe politica, fino ad essere privata dei suoi diritti più basilari: senza cibo, acqua, spesso senza tetto, lavoro o istruzione. E soprattutto senza nessun riferimento morale positivo attorno al quale modellare la propria vita, cercando un riscatto, una resurrezione personale dall’inferno dei viventi. Ma lo sfilacciamento morale tra due ambiti della stessa società, tra due estremi della stessa città, trova geniale trasposizione letteraria in un romanzo che è un macrotesto di tanti capitoli apparentemente autonomi, un gomitolo di tante storie quotidiane intrecciate. Un’opera che procede per frammenti e aggregazioni di episodi, ad ognuno dei quali è riservato un preciso capitolo e un preciso momento storico e che solo verso la fine lascia intravedere il mosaico definitivo, il suo senso di unità narrativa. In questa ordinata varietà i protagonisti sono sempre ragazzini di periferia completamente abbandonati a sé stessi, impegnati in un problematico trapasso dalla primissima giovinezza alla vita adulta. Realtà che incombe, scolpisce caratteri, scalpella attitudini comportamentali, inchiostra la purezza primigenia della gioventù, plasma le personalità e le irretisce, le confina ora violentemente, ora bonariamente ad un unico recinto spaziale, simbolo negativo (e negativizzante) di tutti gli inferni contemporanei. Tra i ragazzi di vita che affollano festosamente queste pagine, tra Caciotta, il Lenzetta o il Begalone spicca Riccetto, simbolo e guida di un gruppo di adulti bambini, tutti descritti e seguiti con affettuosissima attenzione e tenera vocazione umanitaria dall’autore nelle loro infinite, picaresche giravolte quotidiane, senza mai scadere nel pietismo ipocrita: bagni al fiume, furtarelli, giochi collettivi, giochi d’azzardo, riti iniziatici e mortiferi, amori di prostitute consumati nel buio e nelle viscere della città o subiti da adulti approfittatori per un pugno di lire. L’intento autoriale è evidente: dar voce agli esclusi, ai deboli, alle vittime di un sistema socio-economico che crea enormi squilibri e disuguaglianze sempre più marcate tra centro e periferia. Mettersi dalla loro parte, mischiarsi e immischiarsi, compromettersi e confondersi fino ad arrivare ad assumere le loro prospettive di vita, i loro più immediati desideri, il loro sguardo, le loro bussole interiori. Niente, nessuna arma, nessuno strumento comunicativo in questo umanitaresimo così compartecipativo può essere accantonato. Perfino il linguaggio allora, così de-liricizzato e intenerito per arrivare sino al documentarismo più intimo e genuino, ha l’intento di riabilitarli al tavolo della Storia, di restituire loro la voce brutalmente silenziata dalle nefandezze della guerra prima e del potere borghese poi. Come naturale conseguenza l’adolescenza si abbrutisce e si svilisce, fino ad essiccarsi della sua luminosità vitale: i ragazzi non hanno (più) nessuno slancio ottimistico verso ciò che sarà, nessuna cascata di progetti, sogni e propositi di conquista e affermazione di sé, ma la giovinezza si fa pozzo sprofondato del disagio quotidiano, di un male oscuro incatramato, di un futuro a scartamento ridotto; ci si accontenta di uno scantonato per incontrare una prostituta – non a caso altra categoria di umanità abbandonata e schifata, che l’autore teneramente accarezza e protegge, ridonandole considerazione letteraria e dignità umana. Il tempo della scoperta, dello slancio, dell’incoscienza felice s’è bruciato, non c’è energia per il futuro, né denaro per progettare nulla al di fuori della singola giornata sprecata tra vallate polverose di periferia. Il giorno è e sarà sempre miseria da sfuggire o noia o solitudine da riempire, oltre che esposizione al pericolo continuo. Ogni cosa ha un tempo (brevissimo) di scadenza perché ciascuno di questi innocenti è chiamato a superare una prova per dimostrare a sé stesso, al suo cenacolino di protogangsters e poi alla piovra sociale così vorace, di essere pronto prima del tempo al grande salto, di essere finalmente, fieramente, dolorosamente adulto.
L’intento autoriale è evidente: dar voce agli esclusi, ai deboli, alle vittime di un sistema socio-economico che crea enormi squilibri e disuguaglianze sempre più marcate tra centro e periferia. Mettersi dalla loro parte, mischiarsi e immischiarsi, compromettersi e confondersi fino ad arrivare ad assumere le loro prospettive di vita, i loro più immediati desideri, il loro sguardo, le loro bussole interiori
A questo proposito mi pare utile soffermarci su una particolare pennellata narrativa: apertura di romanzo, siamo sul Tevere, sediamoci insieme a Riccetto ed ai suoi compagni su un barchetta sgangherata e schiaffeggiata dalle onde. Il nostro intravede una piccola rondine agonizzante e osa quello che nessun altro ha intenzione (e nemmeno ha pensato) di fare: si tuffa, affronta le infide acque del fiume per restituire alla vita il malcapitato uccellino. Cos’è successo esattamente? A ben vedere ha primeggiato in lui nient’altro che l’istinto individuale alla solidarietà, l’originario senso di compassione e armonia universale Uomo-Natura, non ancora soffocato dalla brutale maturità imposta dalla società. E poco importa se la massa non capisce, deride, respinge: Riccetto (uomo ri-preso allo stadio primitivo, precivilizzazione) combatte gli imprevedibili ostacoli che la società gli rivolta addosso (le rapide) per custodire il suo primigenio afflato di affettuosità universale, che si può compiere solo nell’uscita da sé, dalla propria zona di conforto e a rischio della propria incolumità. Non è un caso che qui ciò che è da salvare è, banalmente, un elemento naturale (un comunissimo uccello) e ciò che va messo a repentaglio è il proprio tornacontino di salvezza. Il simbolismo di questo episodio è necessario per cogliere la battaglia umanitaria, la trincea filantropica in cui si cala il narratore e da cui sceglie di combattere gli assalti disumanizzanti della società moderna, questa piovra tentacolare che carbonizza ogni (nostra) tenerezza: perché Pasolini si identifica nei ragazzini di periferia? Presto detto: questi sbarbatelli sono ancora puri, incorrotti, e quindi capaci di sentimenti autentici, di quelle manifestazioni spontanee (e non spiegabili) di umanità e affetto che la realtà adulta, obnubilata e completamente narcotizzata da un consumismo individualistico e egoistico, ha dolorosamente e inconsciamente allontanato da sé. Però a fine romanzo (e necessariamente solo a fine romanzo), invece, la parabola disumanizzante è perfettamente compiuta: Riccetto potrebbe ancora salvare una vita, non un anonimo uccello, ma molto di più, un disperatissimo e isolatissimo bambino: Genesio, (forse uno dei personaggi più sfaccettati e più minuziosamente tratteggiati nella sua angosciante solitudine esistenziale) che si sta inabissando tra le acque dell’Aniene. Ma Riccetto arriva troppo tardi per gettarsi in acqua, non può muovere neppure un dito e si ferma, contemplativo, ad assistere alla tragedia. Poi se ne va. Del ragazzino delle borgate audace e sensibile non c’è più traccia, la maturità lo ha reso privo di passioni, la società lo ha irretito nel suo egoismo privatistico. Nessuna possibilità di diversificarsi ed evitare di essere conformato, omologato, definitivamente inaridito. E non è un caso che l’intero arco narrativo del romanzo si strutturi attorno a questi due episodi: sono, infatti, paradigma circolare del degrado etico e morale, della disumanizzazione collettiva, dell’appiattimento etico e valoriale cui sta andando incontro l‘intera società italiana del dopoguerra. Al processo di inaridimento lentamente compiutosi nel bambino diventato adulto, corrisponde, infatti, il declino di un intera società e del suo sistema vitalistico e solidale, che è sì uscita dagli orrori della guerra nazifascista ma ha finito per omologarsi passivamente ad un modello ugualmente abbrutente e disumanizzante.
Davide Maria Zazzini è nato il 14 aprile 1996 a Pescara. Da quattro anni studia a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne e continua a studiare ora Filologia Moderna. Ama i Pink Floyd, i romanzi di Gabriel García Márquez e Calvino, le poesie di Montale, Gatto, Neruda, Prévert e Catullo. Ma il cinema è la sua passione maggiore: soprattutto Fellini, Bertolucci, Forman e Scorsese.
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