Letteratura

Con gli occhi chiusi /1


Per gli altri articoli di Dario

Cosi Tozzi in Con gli occhi chiusi: «Gli sembrava strano di esistere, perciò ebbe paura di se stesso». Io credo che sostanzialmente un io per esser tale deve poter essere in grado di affermarsi come soggetto della storia che si sta narrando nella mente o di cui ne recupera le fila. Soggetto della propria storia sviluppata in senso cronologico. Senza questi presupposti non è secondo me possibile parlare di un vero io. Esso mi risulta estremamente necessario per apportare significanza concettuale all’interno dello smembramento del pensiero attorcigliato in ogni sorta di luoghi, ricordi, immagini, suoni padroni del pensiero stesso. Follia dunque forse è energia che in questo contesto in cui vivo è impregnata di una più o meno complessità concettuale, razionale. L’io è l’unico possibile argine alla scompaginazione  a-morale e sragionevole che l’energia del trauma non concettualizzato che mi abita genera tra tutte le impressioni che il mio cervello ha registrato fino a questo momento. Un “me” che riconosce altro da sé non è sufficientemente io. In assenza della cronologia del vissuto di cui io adesso mi faccio protagonista, abito l’atemporalità, quindi l’istante insopportabile, smaterializzazione, oggetto innominabile tra altri oggetti innominabili, presenza sconosciuta di se stessa, moto dettato da altro. Così Musil scrivendo su Moosbrugger: «Si può immaginare che la vita di un uomo scorra come un fiume; ma il moto che Mooosbrugger percepiva nella sua scorreva come un fiume attraverso una distesa d’acqua ferma. Via via che avanzava, tornava a confondersi dietro, e il corso della vita restava quasi cancellato». Senza un io non vi è la possibilità di essere. Senza un soggetto l’evento è subito e non riferito. Essere vuole dire per me possibilità di potersi vedere come soggetto particolare. Questo non vuole dire che per tutto ciò che ricade al di fuori dell’io, al di fuori del soggetto che può esistere, l’ineluttabile del trauma, l’incoscienza, non vi è esistenza. Quella che si dà senza soggetto è vita fuori dalla presa del senso, è quel reale che Lacan definisce come «ciò che resiste alla simbolizzazione» (Nuovo dizionario di psicologia, U. Galimberti), alla spiegazione quindi, alla percezione del veduto. Non sparisce il movimento della mente. Qualcosa di me rimane sempre; quel sé che Jung definisce come «perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme» (Nuovo dizionario di psicologia), se si intende per inconscio tutto ciò che mi abita e che non è dato vedere non perché non sia presente, ma perché manca la possibilità dell’autoriferimento di questo materiale “registrato” nella mente (un’esperienza, un’emozione, un evento osservato, un evento subito). Quindi quando dico “perdita di sè” riferendomi a Pietro non intendo un sé generale che garantisce sempre la percezione dell’esistenza (e non dell’essere), bensì perdita della propria storia e della possibilità dell’autoriferimento, perdita dell’io.

L’io è l’unico possibile argine alla scompaginazione  a-morale e sragionevole che l’energia del trauma non concettualizzato che mi abita genera tra tutte le impressioni che il mio cervello ha registrato fino a questo momento. Un “me” che riconosce altro da sé non è sufficientemente io

La mancanza di una concreta identità garantita dalle figure genitoriali che sono venute meno – la madre vuole essere accudita da lui, il padre non è in grado di dimostrare amore per lui – genera uno stato dissociativo. Ciò che sta abitando il pensiero di Pietro è la presa d’atto della mancanza del confine del senso. Ha paura di se stesso perché i pensieri che si presentano dentro di lui sono privi di una base soggettiva a cui riferirli e perciò estranei, impropri, senza un padrone. Rimane il corpo che diviene oggetto sconosciuto, perduto nel marasma dell’oggettualità esterna. Non è in grado di poter sentire la differenza tra sé e ciò che è fuori di sé. Esistere gli sembra strano perché la percezione dell’esistenza è subita. Altalena tra possibilità di essere un soggetto singolare e la sparizione della medesima. Ingresso caotico di suoni, ricordi ed immagini privi della colla della logica. La paura è la presa d’atto di sentire di non essere. La domanda d’amore e la conferma di sé, ricercata necessariamente dalle figure che lo stanno crescendo, non sono comprese e comunque sentite, ma il suo bisogno di riconoscimento permane, essendo necessario il rifugio dell’unicità dell’amore di cui abbisogna come essere incompleto e in potenza, quindi sostanzialmente perso nel caos della realtà. Così dolorosamente si rivolgerà a Ghisola: «È vero che vuoi bene soltanto a me? Dimmelo». Inizia qui il dramma della perdizione nell’altro, la confusione tra amore e accudimento. Pietro ha bisogno di una conferma d’amore totale, unica e vera come la verità della pulsione che lo abita e che genera tale bisogno, e riflette nell’esterno la sincerità e l’unicità del bisogno stesso, che per la sua “eticità pura” non può non essere compensato.

La domanda d’amore e la conferma di sé, ricercata necessariamente dalle figure che lo stanno crescendo, non sono comprese e comunque sentite, ma il suo bisogno di riconoscimento permane, essendo necessario il rifugio dell’unicità dell’amore di cui abbisogna come essere incompleto e in potenza, quindi sostanzialmente perso nel caos della realtà

«Ansia, malinconia, gli pareva che i giorni fossero staccati e separati l’uno dall’altro»: dilatazione temporale, ingresso dell’istantaneità del non essere soggetto, per via della mancanza di un io strutturato sull’esperienza cronologica, e l’incoscienza dei traumi che ha dovuto subire dalla figura paterna. Essere un io vuole dire essere in grado di riferire a se stessi il proprio vissuto. Esso è fondato su di una dialettica della fiducia. Altrimenti come spiegare che se da parte delle figure che ti crescono non vi è osservazione di ciò che si è, se quello che devo essere è ciò che tu vuoi che io sia (come desidera suo padre), come spiegare dunque quella mancanza di fiducia in se stessi che genera lo stato della perdita di sé e della fissazione del punto? Quindi in assenza di fiducia in se stessi vi è assenza di credo nei confronti dell’essere qualcosa di reale. Di conseguenza la storia cronologica del soggetto non può momentaneamente sussistere per via del fatto che nel vissuto di ogni evento un soggetto possibile si trova comunque smentito dal pensiero dell’impossibilità dell’appropriazione. Ogni evento è vissuto dal di fuori, subito, è passione. Per sentire il tempo di nuovo scorrere è necessaria la credenza (in uno stadio superiore la verità della realtà) in una fissazione dell’immagine di sé (un io) che concede l’oblio dell’istante e fa vivere gli eventi senza più che essi siano appunto subiti. Infatti, prima che questa dilatazione temporale sia manifesta, Tozzi fotografa gli eventi che Pietro vive in maniera piuttosto sconnessa tra di loro, cerca cioè di raccontare semplicemente le sensazioni che avvengono dentro Pietro in seguito all’evento stesso. Ne è trascinato e li racconta perché sono quegli stessi episodi che lo hanno segnato nell’essere senza che potesse averne coscienza. Prima di questa descrizione non vi è accenno a tale riferimento sul tempo che non scorre.

Di conseguenza la storia cronologica del soggetto non può momentaneamente sussistere per via del fatto che nel vissuto di ogni evento un soggetto possibile si trova comunque smentito dal pensiero dell’impossibilità dell’appropriazione. Ogni evento è vissuto dal di fuori, subito, è passione

Proseguendo gli studi d’arte «si sforzava di essere soddisfatto»: da ragazzino afferma ad un certo punto, improvvisamente, che avrebbe dipinto. Il suo sforzo è incentrato ad alimentare un credo di qualcosa che gli appartiene come peculiarità che si scontra con la realtà dello scompenso che avverte, non avendo più tale credo la forza della verità come costrutto di un immagine di sé che si è di nuovo aggrovigliata su se stessa e che forse porta alla fin fine proprio la fragilità del credere e non la potenza della verità che afferma che egli non può essere definito in un ruolo. Riferito ai compagni «si sentiva un giovane che aveva già troppo vissuto più di loro»: la disfunzione intrinseca alla natura che assume i contorni della follia, scontrandosi con un concetto di norma condiviso sulla base della funzionalità all’interno della società e del dolore o meno che causa al soggetto, porta comunque in grembo la creazione dell’a-normale, del possibile, dell’immaginario, della forza. Se i traumi di Pietro sono tutto ciò che lo rende anomalo agli occhi degli altri, disfunzionale per il raggiungimento della felicità nell’equilibrio, la perdita di sé è anche paradossalmente l’origine della sua intelligenza. La destrutturazione della sua identità gli fa prendere atto della passività (negativa o meno non importa) dell’altro nell’aderire ai confini preconfezionati di cui esso (l’altro) non percepisce l’esistenza, ma a cui semplicemente si adatta. La perdita di sé lo ha reso più consapevole in confronto ad altri dell’artificiosità dell’adesione ad un senso comune. È stato costretto all’esplorazione mortificante della relatività dell’immagine, della rappresentazione. Sa di esserne testimone in quanto ancora esiste. L’altro – che non può essere in grado di sfamare la potenza della pulsione che vive in Pietro e che è priva della presa del senso generata dalla domanda d’amore totale che non potrà mai più avere – è, nella logica folle di Pietro, falsità, proprio per il fatto di manifestarsi come qualcosa che davvero è. La struttura del potere che governa il contesto equivale ad un inganno se confrontata con ciò che di più guida Pietro nella vita: la verità pura e subitanea del sentire immediato, della forza pulsionale ingovernabile. Egli  abbandona gli studi e «non seppe spiegarsi come gli altri studiassero senza essere costretti a fare come lui», ossia a fuggire la rappresentazione ingannevole delle leggi del contesto. La base morale di Pietro si struttura nelle fondamenta sulla verità dell’immediatezza del sentito della pulsione, generato dal trauma non ancora conosciuto. Egli sa che non può esistere un soggetto reale perché l’unica cosa di cui egli è realmente testimone è proprio l’impossibilità di essere un soggetto interno a cui potersi riferire. L’osservazione inevitabile del sé interno lo inchioda ad un destino; credere di essere soggetti agenti in libertà e non esseri assoggettati costituisce, per lui, la vera follia, l’errore. Il destino è la perdita di sé. Tale destino assume un valore di universalità agli occhi di Pietro proprio per il fatto che egli non esiste, e non può essere questo destino ritenuto una visione particolare o comunque una teoria per il fatto che non è Pietro in quanto soggetto che la elabora, bensì Pietro in quanto assoggettato alla perdita del sé di cui non è che un semplice testimone. E comunque cresce, e la visione mostruosa del padre, vista dagli occhi dell’incoscienza dell’infantilità, lascia aperto uno spiraglio sulla lettura di tale figura che avrà notevoli conseguenze sulla condotta di Pietro. Il padre lamenta: «perché preferisci stare lontano da me, che sono tuo padre?»

Egli sa che non può esistere un soggetto reale perché l’unica cosa di cui egli è realmente testimone è proprio l’impossibilità di essere un soggetto interno a cui potersi riferire. L’osservazione inevitabile del sé interno lo inchioda ad un destino; credere di essere soggetti agenti in libertà e non esseri assoggettati costituisce, per lui, la vera follia, l’errore

Formalizzazione della giustificazione folle della dialettica circolare interna del padre che non può ammettere a se stesso di non essere amato dal figlio per il fatto che egli stesso in realtà non lo ama. L’amore disinteressato, sconfinante il sé in tutta la sua incognita e la sua certezza, che permetterebbe l’introiezione dell’alterità reale dell’altro, è preclusa al padre che cerca rifugio dal senso di colpa, dettato dalla percezione di non essere mai riuscito in realtà a scorgere il figlio. Cerca rifugio nel diritto immaginario di avere un potere a cui non si può non obbedire in quanto figlio, a cui non si può non essere riconoscenti, l’aver dato la vita. Una vita che Pietro, in realtà, non può sentire, non essendone protagonista. Innocenza dell’incoscienza. Il tiranno è in fondo relativo e irreale come il destino dell’esistenza comanda. Pietro adesso può sentirsi in diritto con sé stesso di non essere in nessun modo in debito con lui, di potersi ribellare alla sua autorità e vendicarsi sul patetico essere che reclama diritti fondati su un peccato originale dalla natura assurda e inconsistente. Così Pietro si sente «in diritto di fare il contrario di quello che il padre voleva» nel momento preciso in cui quest’ultimo si mostra spogliato della sua potenza per essere rigettato nell’ordine del necessariamente falso e debole. Riferimento di un diritto che Pietro ora sente suo e a cui reagisce riprendendo gli studi in maniera seria e funzionale. Gode di un sentore di libertà che resta tuttavia ancora illusione, essendo frutto della ribellione nei confronti della bestialità del padre. Non agisce per ciò che veramente desidera, bensì guidato ancora da qualcos’altro che lo precede e ancora lo determina. Tuttavia è reale il sentirsi. L’adagio sul riscatto come diritto lo fa comunque essere e infatti «ora quei tre anni (di studi) gli parevano rapidi come un giorno solo». Oblio dell’istantaneità insopportabile dell’assenza, il tempo inizia di nuovo a scorrere. Temporalità recuperata grazie alla fissazione di un nuovo sé, ma appunto non ancora padrone, non ancora sufficientemente io: «l’impazienza di rivedere Ghisola aumentava, metteva in lei tutta la fiducia della sua vita». Quella che un tempo era stata il riparo dall’assenza e l’immaginaria risposta più o meno pronunciata del bisogno d’amore è ancora l’ultima firma che può autentificare realmente Pietro in quanto soggetto. Comincia qui la coazione a ripetere del trauma: la finzione del credersi un io cancella il debito con il passato e di esso egli si dimentica. Dimentica ciò che è stato, rifiuto di ciò che si ricorda d’essere stato, inebriato dalla credenza di essere adesso qualcosa di completamente diverso, perdendosi nella possibilità folle dell’immaginazione di poter essere un qualcos’altro di non ancora conosciuto. La parziale cristallizzazione dell’essere ciò che ora è risulterà vanità proprio per l’assenza di quel collegamento cronologico che un soggetto in grado di integrare tali sbalzi in un senso complessivo garantirebbe: «ma perché aveva sperato di diventare un pittore?…si confortava sognando un esistenza nuova e insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva…sentiva di non essere più come una volta per quelli che erano stati suoi amici prima che fosse andato a Firenze. A Siena aveva voluto essere amico anche dei più cretini e dei più farabutti (desiderio di essere parte integrante di qualcosa senza sapere cosa stesse realmente cercando)… Tornato a Firenze era riuscito a non parlare più a nessuno, con una smania amara di non vederli più».


Immagine: Portrait of Paris von Gütersloh, 1918 / Egon Schiele, (MET collection OA)