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Walter Benjamin è stato un assiduo frequentatore della forma frammentaria. È lì, all’interno di quella struttura-non-struttura letteraria storicamente data, legittimata e nobilitata da illustri predecessori, che i suoi gusti incontrano tangenzialmente quelli dei Diari della sua grande fonte d’ispirazione, Paul Valéry, o quelli dei Minima Moralia del suo caro amico Theodor Adorno. Potremmo quasi affermare, usando un’iperbole, che la gran parte dei suoi saggi critici siano virtualmente ricostruibili a partire dai frammenti da cui si sono formati, unendo questi ultimi come fossero puntini. Dei “puntini” che formano un sistema che di sistematico stricto sensu ha ben poco. Per quasi l’intero arco della sua vita Benjamin ha lavorato ad un’ingente opera su Baudelaire – sommo prototipo del flâneur, figura tanto cara al filosofo tedesco – che non ha mai concluso, consegnando a noi lettori un testo ampiamente lacunoso e disomogeneo. Nella valigetta nera – trovata a Portbou dopo la sua scomparsa, dovuta all’assunzione di un’eccessiva dose di morfina mentre era in fuga dai nazisti –, Benjamin aveva con sé dei documenti che poi si sarebbero rivelati sezioni, parti dello scheletro della sua opera più importante, benché incompiuta, I «passages» di Parigi, anch’essi sorprendentemente redatti per lo più in forma frammentaria. Lo stesso pensiero benjaminiano, guardando più in là delle singole opere, si muove e si sviluppa in maniera molto differente rispetto a quello dei filosofi “di professione”, che hanno sempre tentato di mettere la loro filosofia “a sistema”, ingabbiandola in strutture autosussistenti. Esso procede per nessi e vicoli ciechi, interrompendosi e ricominciando di nuovo e poi di nuovo, mai domo e soddisfatto. Molto spesso prende avvio da spunti e input che parrebbero superficialmente di poco conto, come l’architettura urbana, i giocattoli per l’infanzia o le innovazioni tecnologiche nel campo dell’artistico in senso lato. In questa direzione è notevole l’interesse di Benjamin per forme di intrattenimento secondarie, come il panorama, il diorama, la fantasmagoria, la lanterna magica, la camera obscura e il kaiserpanorama, che si sarebbero rivelate meno futuribili e durature rispetto al cinema, alla fotografia e alla radio, delle quali pure si è occupato ampiamente, soprattutto durante la seconda fase della sua speculazione teorica, dedicata alla riproducibilità tecnica delle opere d’arte. Un coinvolgimento certamente teoretico, ma che reclama un’attenzione particolare da parte del filosofo berlinese, il quale trascorre più di tre anni dedicandosi in prima persona alla scrittura di testi radiofonici a carattere velatamente paideutico. Il sodalizio con le emittenti di Berlino e Francoforte si protrae fino al 1932, anno in cui Benjamin, ebreo di nascita, è costretto a partire per l’esilio francese, trascorso principalmente nella capitale. È da questo momento in poi che Benjamin sviluppa un crescente interesse per il fenomeno delle gallerie, o passages, che venivano costruite in ogni angolo di Parigi, considerata da Benjamin la «capitale del XIX secolo». Piccoli mondi a sé, indagati ed analizzati sotto vari punti di vista e diversificate prospettive – i corridoi di vetro, i negozi, i singolari personaggi che vi gravitano attorno e l’inebriante, opulenta profusione di merci finemente esposte in vetrina – con profondità sempre maggiore. D’altronde uno dei tipici intenti benjaminiani è proprio quello di illustrare universalmente i caratteri di un’epoca a partire da uno o più fenomeni apparentemente secondari e insignificanti.
Lo stesso pensiero benjaminiano, guardando più in là delle singole opere, si muove e si sviluppa in maniera molto differente rispetto a quello dei filosofi “di professione”, che hanno sempre tentato di mettere la loro filosofia “a sistema”, ingabbiandola in strutture autosussistenti. Esso procede per nessi e vicoli ciechi, interrompendosi e ricominciando di nuovo e poi di nuovo, mai domo e soddisfatto.
Lo sviluppo della metropoli, delle sue forme di vita e delle sue relazioni intrinseche ha, del resto, richiamato l’attenzione di molti pensatori, nel novero dei quali trovano posto non solo i più celebri membri della Scuola di Francoforte, come Horkheimer, Adorno e Marcuse, ma anche Georg Simmel, autore de La metropoli e la vita dello spirito (1913). È grazie a Simmel che in Benjamin si fa strada la divaricazione, tipicamente moderna, fra impulso alla differenziazione individuale da un lato e dall’altro la tendenza del processo storico alla dissoluzione delle identità sostanziali, compresa quella che tiene insieme l’esperienza individuale – per Benjamin sempre storicamente variabile e mai definibile in termini sovrastorici. Questa scissione non è solo quella che dà vita all’humus che permette la formazione di «masse civilizzate» all’interno delle metropoli primonovecentesche, ma è anche alla base di quella che Benjamin – accanto a moltissimi teorici della contemporaneità – chiama «frammentazione dell’individuo». L’uomo contemporaneo è infatti la prima vittima di questa separazione: la sua esperienza è divisa fra una soggettività individuale e un’esteriorità oggettivante. Divenuto infatti oggetto privilegiato di studi sociologici, bersagliato dalle pubblicità di grandi aziende che se lo contendono come un pupazzo più che come un cliente, colpito dagli urti della folla, al cui sguardo indifferente o interessato si è decisamente abituato – rispetto al cittadino del XIX secolo –, l’uomo contemporaneo possiede una vita interiore che non combacia, né concilia più con quella esteriore. Magari ancora afflitto e svilito, ma non più impaurito e timido, egli ha imparato che l’unica arma che ha per difendersi è mettersi in mostra, come fa nelle foto che pubblica sui social network o dietro i tatuaggi che gli nascondono la pelle e che vorrebbero suggerire o proclamare una individualità potenziata rispetto a quella delle altre figure nella folla, la cui silhouette al confronto appare meno dettagliata, più anonima e fumosa: forme “espressioniste” che Simmel avrebbe definito come «la resistenza del soggetto a venir livellato e dissolto all’interno di un meccanismo tecnico-sociale». Meccanismo dal quale cerca in tal modo di difendersi, ma nel quale rimane inevitabilmente invischiato, venendo, suo malgrado, trascinato nella direzione opposta a quella in cui vorrebbe andare. Una semplificazione, nonché una dimostrazione esemplare di questa duplice tensione dell’individuo, ormai scisso nel soggetto di una vita interiore e l’oggetto di sguardi estranei, è rappresentata dalla differenza che Benjamin intravede fra il kaiserpanorama – le cui immagini in movimento vengono fruite da spettatori singoli, disposti in cerchio, ma ai quali manca il contatto visivo reciproco, sottrattogli dai separé –, e il cinema. In una sala cinematografica le persone si trovano disposte come a teatro, ma non sono esattamente a teatro. Assistono a un’opera dedicata, più che ai cittadini, alla massa. E la ricezione è appunto quella che Benjamin definisce una «ricezione di massa», influenzata dalle reazioni collettive più che da quelle personali, a dimostrazione del fatto che per quanto il singolo cerchi di spostarsi dal lato di un’individualità sostanziale, egli sarà sempre anche parificato alla media, livellato agli standard della società cui appartiene in direzione di un conformismo del tutto contemporaneo.
In una sala cinematografica le persone si trovano disposte come a teatro, ma non sono esattamente a teatro. Assistono a un’opera dedicata, più che ai cittadini, alla massa. E la ricezione è appunto quella che Benjamin definisce una «ricezione di massa», influenzata dalle reazioni collettive più che da quelle personali
Così l’opera d’arte, ora tecnicamente riproducibile, smette di avere quella funzione di simbolo che aveva mantenuto per tutta la classicità, dal teatro tragico greco fino al neoclassicismo. A questa fase – ricorrente nel senso vichiano del termine – della cultura, Benjamin ne L’origine del dramma barocco tedesco (1928) contrappone quella del dramma barocco tedesco, caratterizzato non più dal simbolo inteso all’incirca come wittgensteiniana «funzione di verità» del Bello, bensì dall’allegoria, in cui il rapporto fra segno e significato è consapevolmente disgiunto per essere affidato alla sola soggettività dell’allegorista. Il marcato anticlassicismo di Benjamin, infatti, lo porta a privilegiare questa figura tipicamente barocca, in quanto essa non stabilisce alcuna relazione univoca fra un’essenza ideale e la sua manifestazione fisica, né tantomeno fissa il divenire caotico della pura vita in un’unitaria totalità. Nell’ultimo secolo questa unità è andata via via frantumandosi e l’opera d’arte – così come la cartesiana soggettività dell’uomo moderno, che affiora sempre più isolata dal mondo circostante – non è più in grado di tenere insieme il mondo ideale e quello fenomenico, come già Hegel faceva notare. Dunque, se l’opera d’arte allegorica è la sola in grado di fissare l’irrequieto divenire della vita in una apparenza “mobile” e aperta alle interpretazioni, essa diviene conseguentemente il giusto e necessario contrappeso alla tentazione neoclassica di una chiusura tanto unitaria quanto illusoria. Eccoci infine tornati al perché del gusto smisurato di Walter Benjamin per il frammento: l’opera d’arte per Benjamin è un frammento. È costitutivamente incompiuta; perennemente in bilico tra il “velo” unitario, tipico del simbolo, e la pluralità di significati, tipica dell’allegoria; divisa fra l’oggettiva esteriorità di cui si riveste e la soggettiva, individuale fruizione di chi la spoglia dei suoi significati per donarle i propri. Ma noi crediamo che sia anche un altro il motivo per cui è importante la parola “frammento”. E cioè che anche l’essere umano è paragonabile ad un frammento. Per dirla con le parole utilizzate dal già citato Georg Simmel nel Ponte e porta (1909), l’uomo non è soltanto come un ponte, il cui valore estetico è rappresentato dall’unità dell’arte simbolica, ma è anche come una porta: un «frammento dello spazio […] in sé unificato e separato da tutto il mondo restante […] una cerniera tra lo spazio dell’uomo e tutto ciò che è fuori di esso», che non pone l’accento sul solo connettere né tantomeno sul disunire, ma «rappresenta in modo decisivo come il separare e il collegare siano soltanto due facce della stessa medaglia».
Pierfrancesco Quarta è nato il 22 Dicembre del 1995 a Fiesole, paesino di origini etrusche in provincia di Firenze, città in cui cresce e conclude gli studi classici. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Studi letterari e filosofici all’Università di Siena con una tesi sulla concezione esperienziale del romanzo nel pensiero di Walter Benjamin, torna nuovamente a Firenze, dove è attualmente iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze filosofiche. Appassionato di filosofia, letteratura, cinema e soprattutto di musica, ha alle spalle un passato da batterista in una band emergente fiorentina.
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