Per gli altri articoli di Niccolò
Per quasi l’intero arco della sua vita Paul Valéry ebbe l’abitudine di scrivere, fra le quattro e le otto del mattino, i suoi Quaderni, o meglio ebbe l’abitudine di riempire i suoi quaderni con pensieri ancora poco razionalizzati, pensieri non strumentali, né pedagogici né divulgativi, capaci, proprio in virtù della loro disorganicità sprovvista di fine, di restituirci il profilo elaborato, multiforme ed esteso, non solo per mole e spessore, di un uomo la cui attività principale, summa, è stata proprio quella di pensare e di pensare oltre ogni ulteriore specificazione o individualizzazione pragmatica, pensare a lato di ogni successiva esplicitazione o implicazione di senso e significato. Nei Quaderni di Valéry il regno della mente rimane inscalfibile, impenetrabile alla pura teoria, lungi dallo scadere in prassi o in pratica di stile e scrittura. Il pensiero si fa parola unicamente per evidenti necessità fisiologiche, bisogno intimo di esternare l’impulso cerebrale, suscettibile poi d’essere declinato leggermente verso categorie differenziali, filosofia, letteratura, arte, politica, cultura, senza però mai indugiare eccessivamente su forme e potenzialità insite all’interno della stessa struttura discorsiva, inevitabilmente rapsodica e frammentaria, senza mai ricamare esteticamente intorno ai concetti e ai fulcri argomentativi. È un lavorio incessante quello che Valéry porta avanti, nel farsi e disfarsi della sua coscienza, allo stesso tempo oggettiva e soggettiva, nella costruzione lenta e costante di una conoscenza autonoma, abile a scrutare e a catturare i passaggi, i meccanismi, le concatenazioni attraverso cui il pensiero si esercita su e con se stesso, evitando al contempo facili solipsismi e tautologie. Il pensiero non merita spazi a sé stanti per Valéry, esso precede tutto perché tutto sottende e trascende, poesia, prosa, retorica, tecnica. Il quaderno diviene dunque testimone e testamento, laboratorio e fucina, sempre aperto ad accogliere nuovi sviluppi e modificazioni intellettuali, ma chiuso ad eventuali esternalizzazioni programmatiche, applicazioni derivate, destinate giocoforza a depotenziarne e a mistificarne il messaggio e il contenuto. Accade infatti molto spesso che ogni passaggio successivo tenda ad indebolire o a volgarizzare lo stato ad esso precedente, denaturalizzandolo, soprattutto quando si passa dalla teoria alla pratica, dall’astrattezza alla fisicità, dai buoni propositi alla realizzazione.
Il pensiero non merita spazi a sé stanti per Valéry, esso precede tutto perché tutto sottende e trascende, poesia, prosa, retorica, tecnica
Che sia scritto, riempito, perfezionato da uno, due, tre o da più persone, il quaderno è per sua natura intrinseca oggetto dialettico, spazio di confronto tra il dire e il pensare, tra lo scrivere e l’elaborare, sintesi mediatrice tra l’ascoltare e il trascrivere. Sia esso frutto di una stesura lenta, accurata e dettagliata o di un approccio improvviso, rapido, disarticolato, il quaderno è sempre specchio di un’intelligenza in contemplazione attiva, piegata su sé stessa, ma con l’orecchio proteso verso l’altro, in attesa di accogliere e di raccogliere. La riflessione che trova posto legittimo nel quaderno precede lo stato finito, corretto e perfettamente compiuto del manoscritto, libro, saggio, manuale, ne anticipa i confini potenziali, ne illumina la forma e il perimetro, ne predice lo scheletro. Che sia figlia di un raptus inventivo, di un improvviso impulso creativo, di un resoconto di studio, di un appunto di lezione, la parola del quaderno è una parola in divenire, pronta a maturare e a ispessirsi, ma che ha già inscritta in sé il germe di un processo intellettivo di approfondimento, ricerca, studio, interesse, analisi. La parola del quaderno diventa riproduzione più o meno fedele di un pensiero fluido, a volte epifanico ed oracolare, non ancora sperimentato, incorniciato, secolarizzato, voglioso di arricchimento e condivisione. Il pensiero che si fa parola sul quaderno è un improptu non del tutto improvvisato, contraddizione in fieri, frutto acerbo di un’esigenza di rivelazione o di chiarimento, bisognoso di critiche e miglioramenti, di rivisitazioni ed ulteriori attenzioni. Il quaderno come strumento di accrescimento personale, rinnovamento interiore, recherche intima, ma anche come mezzo di condivisione collettiva, di espansione culturale, di collaborazione umana e professionale, capace di superare gli ostacoli del settarismo, delle specificità ostentate, dei tecnicismi elitari e snobistici. D’altronde sul primo numero dei Quaderni Piacentini, rivista fondata nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio e curata dai “giovani della sinistra”, si trova scritto «si può e si deve essere seri senza essere noiosi» (Anno I, n.1, marzo 1962). Il che non vuol dire cedere a quella perversa esigenza di semplicità verbale ed accessibilità prosastica da cui il mondo occidentale sembra essere ormai pervaso in tutti i suoi livelli, dalla pubblicistica più infima all’accademia, ma saper coniugare le necessarie capacità critiche di elaborazione, riflessione intellettuale e conoscenza con le prerogative di una scrittura efficace e mai al di sotto delle sue possibilità, nel segno di quel problemismo di gobettiana memoria.
Il quaderno è per sua natura intrinseca oggetto dialettico, spazio di confronto tra il dire e il pensare, tra lo scrivere e l’elaborare, sintesi mediatrice tra l’ascoltare e il trascrivere
Il quaderno che diventa quindi anche arma, scudo e scudiero dell’intellettuale, figura oggi più che mai ritenuta aberrante e pericolosa, da alcuni persino data per morta o scomparsa nei labirinti del Novecento, considerata incapace di introdurre e sviluppare nuove categorie di pensiero e ragionamento, ancorata a vecchie, antiquate e superate ideologie o scuole, cieca e sorda agli sviluppi confusi e confusionari della società. Figura oggi più che mai richiesta, evidentemente necessaria e fondamentale nelle pieghe dello Zeitgeist attuale. Nei primi anni ’50 del secolo scorso Norberto Bobbio scriveva con la lungimiranza che lo ha sempre contraddistinto e con parole ancora attualissime: «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze. Di certezze – rivestite della festosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» (Politica e cultura, Torino, 2005). Nonostante gli scenari politici, sociali, civili siano radicalmente cambiati rispetto a quel determinato periodo storico, il monito di Bobbio resta profetico, carico adesso, sotto questi cieli cupi, come allora, sotto altri cieli cupi, di un peso specifico che non è andato assottigliandosi negli anni, ma che anzi ha visto accrescere la sua pregnanza e la sua urgenza. Avvolti da un manicheismo oramai tout court, stretti ai lati da un dualismo costitutivo che poco, pochissimo spazio lascia alle sfumature e al ragionamento costruttivo e dialogico, ai tentativi di mediare oltre che distruggere, di parlare oltre che di urlare, i quaderni sono e saranno sempre spazi aperti e plurali, interessati e interessanti, dialettici e propositivi, analitici e curati, eclettici e sfaccettati. In ogni occasione rivendicheranno la parola minuta ed accorta, studiata e meditata contro il vociare delle piazze, gli slogan ai crocicchi delle strade, le tendenze imperversanti per una notte, un mese, un anno. Contro le antinomie e l’incomunicabilità contemporanea essi accoglieranno riflessioni, spunti intellettuali ed artistici mai pregiudiziali, mai offuscati da nessuna politicizzazione fine a se stessa, mai accusatori per puro spirito di ferocia e cattiveria. Contro ogni antagonismo aprioristico i quaderni tenteranno di guardare oltre le posizioni acclarate e ben radicate al terreno, per accogliere, valorizzare ed esprimere un reale, oggettivo, costruttivo spirito e pensiero critico. D’altronde, come scriveva Gramsci nei suoi Quaderni del carcere: «Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberati dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista “critico”, l’unico fecondo nella ricerca scientifica» (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, 1948).
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